Roma mon amour
Non ci aspetteremo di sicuro una risposta tale da uno statunitense, cioè che il sogno di un americano sia di essere italiano. Così il regista e sceneggiatore Damien Chazelle, nato nel Rhode Island ma scolarizzato a Princeton nel New Jersey, e poi ad Harvard, ha coronato il suo «sogno tricolore» prendendo casa a Roma e immergendosi nelle atmosfere felliniane che ha omaggiato nel suo ultimo film Babylon. Autore a cavallo tra classicismo e modernità, si è messo a servizio della macchina da presa con uno stile originale evidente nei cinque lungometraggi realizzati, in cui ha trovato un nuovo linguaggio premiato con un Oscar, due BAFTA, due Golden Globe. Chazelle è un cineasta che fa di ogni suo film un’opera originale spaziando tra temi personali (la musica jazz, l’istruzione), artistici (la storia del cinema nel passaggio dal muto al sonoro, il genere musical degli anni Cinquanta e Sessanta), storici (Hollywood e l’industria cinematografica, l’allunaggio del ’69). Chazelle ha un rapporto stretto oltre che con l’Italia anche con la Francia, per la sua origine francese da parte paterna, e per aver vissuto a Parigi all’età dell’adolescenza quando è cresciuta la sua cinefilia, guidato dalle proposte del settimanale «Pariscope» e dove ha conosciuto il cinema di Jacques Demy, innamorandosi di Catherine Deneuve, Jean-Luc Godard e François Truffaut.
Un altro tassello della sua espressione artistica è la passione per la musica, da batterista non professionista qual è, intenditore di jazz e con un forte sodalizio artistico con Justin Hurwitz, compositore delle musiche di quasi tutti i suoi film, oltre che amico conosciuto ad Harvard dove sono stati compagni di stanza e membri della rock band durante gli anni di studio. Il più giovane presidente di giuria della storia della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, edizione 2023, in quell’anno ha animato, sul red carpet, un flashmob a favore dei diritti e delle donne del popolo iraniano; si è schierato a favore dello sciopero degli attori e scrittori di Hollywood rivendicando il valore dell’arte sul suo contenuto. Chazelle ha spalleggiato anche la mobilitazione pubblica a favore dell’accusa di impeachment a carico di Donald Trump per abuso d’ufficio per i fatti del 2017. «Chi detiene una posizione di potere e resta in silenzio è complice», ha scritto Chazelle in un post del 16 agosto 2017 sull’allora Twitter. La posizione del regista americano è ancora chiara, con le elezioni presidenziali alle porte, quando manifesta la speranza «che gli elettori attratti dalle promesse economiche di Trump, finalmente si sveglino, eliminando una volta per tutte» la logica per cui «“la politica non mi tocca” o “non ho voglia di votare”».
Msa. Cos’è per lei il cinema?
Chazelle. Se un alieno mi chiedesse cos’è il cinema, gli suggerirei di vedere un film pieno di emozioni: Les parapluies de Cherbourg, un epigono del cinema e sintesi di tutte le arti. È un musical con le musiche di Michel Legrand, ma diverso dai musical di Hollywood poiché le canzoni sono tutte collegate.
Quali sono le basi del suo cinema?
Il cinema è sempre stato nel mio Dna, fin dai film di animazione della Disney che vedevo da bambino, come Peter Pan; ho iniziato scrivendo piccole storie che riprendevo con la videocamera di mio padre. Poi, crescendo, sono arrivati Hitchcock e Spielberg, il cinema sperimentale di John Cassavetes e i documentari – ogni film è un documentario – di Robert Flaherty e di Vittorio de Seta che ho scoperto a un Corso dell’ambiente visivo, era chiamato così, ad Harvard. Le mie radici sono il cinema francese, tra sogno e realtà. Il cinema come settima arte è l’ultima e la prima: tutte le arti fanno la bellezza del film di Jacques Demy. Il suo Les parapluies de Cherbourg è un musical universale, c’è il suono ma è la camera che danza. Potrei parlare di questo film dal punto di vista artistico sebbene arrivi prima dal punto di vista emozionale per l’allegria e le emozioni interne che muove. Infine, mi faccio una domanda: perché va al cinema il benzinaio? Per vivere un momento di fantasia, qualcosa di magico e onirico.
Il suo cinema è colto e pieno di riferimenti. Ci racconta la storia del cinema, vista attraverso i suoi occhi?
Alcune esperienze sono accadute in un lasso di tempo veloce, come il passaggio dal muto al sonoro: in quattro o cinque anni quello che si diceva del cinema, cioè che andava veloce, andò quasi a doppia velocità. Il mio film Babylon è dedicato al cinema italiano, a La dolce vita di Federico Fellini, a Michelangelo Antonioni. Anche a Roma di Fellini: Los Angeles come Roma solo con la ricerca di una spiritualità diversa. Fellini componeva scene affollate, di festa, ma anche di momenti religiosi con i pellegrini. Los Angeles è un luogo dove la ricerca spirituale non si realizza mai abbastanza. Se La La Land è fatto sulla falsa riga dei film francesi, Babylon di quelli italiani, ma non so se ci sono riuscito.
Whiplash riprende una figura di precettore che ha influito nella sua vita, un professore di musica particolarmente severo.
Per quattro anni ho seguito il programma di musica alla High school a Princeton dove ho avuto questo insegnante di musica, ma il mio scopo era quello di non essere oggetto della sua ira.
Il suo ultimo film, Babylon, torna a parlare di cinema, del periodo d’oro di Hollywood, e lo fa con un cast eccezionale.
Margot Robbie era simile al suo personaggio: stava diventando famosa all’epoca del casting, pertanto era perfetta. Diego Calva è entrato nel cast per merito di mia moglie: aveva il volto adatto del poeta e del sognatore inesperto.
Come si rapporta con i suoi attori, li lascia liberi o li influenza?
Non ho una ricetta che vada bene per tutti: ogni film è diverso e ogni attore è diverso. Anche per le prove. Possono essere deleterie e si perde la spontaneità, o la prova è come un rinforzo. Con J. K. Simmons non ho provato, con lui avevo fatto un corto (Whiplash, 2013, ndr). Per La La Land ho provato le canzoni e le scene di ballo con Ryan Gosling ed Emma Stone. Per First Man - Il primo uomo ho parlato molto con Ryan, e l’ho fatto vivere assieme con gli altri membri della «famiglia», soprattutto con i bambini che sono mine vaganti sul set, cercando di farli sentire a loro agio. Tornando a Babylon, ad esempio con Brad Pitt e con Margot Robbie non ho provato, invece con Diego Calva ho provato. Più di tutti mia moglie – anche nel cortile di casa facendo la voce del personaggio di Pitt – ha notato in lui la possibilità di ricoprire quel ruolo. Ognuno dei personaggi ha un suo perché particolare.
Un tema ricorrente nella sua cinematografia è la grande industria di Hollywood, da quella libera alla Hollywood che non ha un futuro chiaro.
Io vorrei ricordare che il cinema è un’arte «giovane», poco più che centenaria, ed è fatta di tante arti. Per questo amo i festival che conservano e recuperano, come quello del Cinema ritrovato di Bologna: il Cinema «vecchio» ci parla ancora e può andare avanti non so per quanto tempo, sebbene ogni dieci anni si dica che è morto. Anche nel 1952, con Cantando sotto le stelle lo si disse, quando ci si ricordò che il cinema era morto negli anni Venti, ma io credo che possa continuare a risorgere. Il cinema muto aveva fatto grandi promesse che poi sono state dimenticate. Se c’è morte c’è rinascita. Faccio un paragone: la rivoluzione del sonoro è stata come la prospettiva in architettura.
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