A tavola con gli antenati
«Zuppa di tartaruga con timo fresco, luccio alla griglia con trito di erbe selvatiche, finferli arrosto e punte di ortica, lamponi addolciti con miele e guarniti con nocciole tostate». Viene quasi l’acquolina in bocca a leggere il menù che campeggia all’ingresso del terzo piano del Museo Archeologico dell’Alto Adige a Bolzano. No, nessun reality culinario ha aperto i battenti in città. La lista annotata come su una lavagna col gessetto è, in realtà, un ipotetico menù preistorico che accoglie i visitatori della mostra «Past food»: un excursus su 15 mila anni di alimentazione, aperto fino al 3 novembre. Non aspettatevi, però, una seriosa esposizione di reperti: la mostra in questione, infatti, organizzata in aree tematiche, si rivolge anzitutto alle nuove generazioni e lo fa con schermi e totem interattivi, apparecchiando letteralmente a tavola le testimonianze archeologiche (perlopiù fornite dall’Ufficio Beni Archeologici della Provincia di Bolzano), supportate da approfondimenti e curiosità in formato 2.0. Ecco allora che le tre sale allestite per l’occasione – quasi a mo’ di ristorante – con tavole, piatti digitali, vetrine e pannelli, diventano un viaggio gastronomico nella storia non solo del cibo, ma anche della sua produzione, conservazione e del suo consumo, dalla Preistoria a oggi.
Varcata la soglia della prima «sala da pranzo», ci accoglie subito la tavola dedicata alla caccia e alla pesca. Tra un palco di alce rinvenuto sull’Altopiano del Renon (11.490-11.117 a.C.), punte di freccia provenienti da Varna e Caldaro (XVII-XIII secolo a.C.) e un coltello da caccia con fodero di Vadena (V secolo a.C.), incontriamo anche un cranio di stambecco (Parcines, 6.000-5.900 a.C.), probabilmente la più antica prova del consumo di carne dell’ungulato da parte dell’uomo. Una conferma di quanto già testimoniato dalle indagini sulla mummia di Ötzi (vissuta tra il 3.300 e il 3.100 a.C.), massima attrazione del Museo Archeologico dell’Alto Adige, nel cui stomaco sono stati rinvenuti proprio resti di stambecco. In realtà, però, l’aggiunta della carne alla dieta umana (inizialmente vegetariana) risale a molto prima, precisamente a 2,5 milioni di anni fa, quando il nostro antenato Australopithecus africanus inizia a consumare saltuariamente carcasse di animali morti. La carne diviene tuttavia un piatto fisso soltanto 600 mila anni fa, con l’introduzione della caccia attiva da parte dell’Homo erectus, e poi della cottura, che rende i cibi più masticabili e favorisce l’assorbimento di grassi e proteine. Sostanze, queste, che pongono le basi per la crescita del cervello umano, il cui volume passerà dai 700 centimetri cubi dell’Australopithecus ai 1.350 dell’uomo attuale.
Ma torniamo alla Preistoria, e in particolare al periodo Mesolitico (10.000-8.000 a.C.), quando in Alto Adige i cacciatori, perlopiù nomadi o semi-nomadi, allestiscono accampamenti sotto ripari di roccia nel fondovalle o su versanti montuosi. Per garantirsi la sopravvivenza, uccidono stambecchi, cervi, cinghiali, lepri e marmotte. Ma anche castori, tartarughe, falchi e galli forcelli. La carne delle loro prede viene affumicata o arrostita su focolari aperti. Man mano che, nel VI millennio a.C. le popolazioni diventano stanziali e la caccia viene in parte soppiantata dall’allevamento, cambiano anche le abitudini alimentari in Europa. Oltre alla selvaggina e al pesce (in mostra vertebre di luccio da Salorno, 8.000-7.500 a.C., e ami da pesca provenienti da San Candido e Laives, I-V secolo d.C.), si diffondono animali da cortile, come pecore, capre, bovini e maiali, seguiti dai polli, a partire dall’età del ferro. È dedicato proprio all’allevamento del bestiame il secondo tavolo in mostra a Bolzano. Sui piatti interattivi scorrono le immagini del gallo bankiva – l’antenato del nostro pollo, addomesticato in Cina 8 mila anni fa e giunto in Europa attraverso la Grecia e l’Italia nel I millennio a.C. – e dell’uro, alias Bos primigenius, ovvero il bue primitivo, allevato 11 mila anni fa nella Mezzaluna fertile e portato in Europa circa 8 mila anni fa dagli agricoltori dell’Anatolia, come pure il maiale, la capra e la pecora.
Al contrario della caccia, l’allevamento garantisce all’uomo preziose scorte per tutto l’anno. La carne del bestiame, infatti, viene mangiata fresca, cotta alla griglia con l’aiuto di spiedi e forchettoni, ma anche conservata tramite affumicatura e salatura. Nulla dell’animale viene sprecato: l’uomo preistorico consuma tutto, dai muscoli alle frattaglie. E il procedimento per preparare le carni diventa quasi un rituale, con tanto di strumenti creati ad hoc. Basti vedere l’ascia da macello esposta al Museo Archeologico dell’Alto Adige (Vadena, IV-III secolo a.C.), i coltelli da colpo e da tavola (Bressanone e Vadena, X-III secolo a.C.), l’attizzatoio, il forchettone da cucina, lo spiedo, il mestolo, l’alare, il gancio per calderone e pure il treppiede provenienti da Sanzeno (V-IV secolo a.C.). Per restare in tema di utensili da cucina, la mostra procede su una timeline illustrata che riproduce l’evoluzione di pentole e tegami dal Neolitico di 7 mila anni fa ai giorni nostri. Poi ci invita a prendere posto tra ciotole, coppe e brocche trentine di vetro e ceramica (I-V secolo d.C.) nella ricostruzione di una tavola di epoca romana. Da dietro il vetro della teca studiamo quel che resta di un rudimentale cucchiaio (Malles, I-II secolo d.C.) e immaginiamo di stenderci anche noi (come facevano i romani) per consumare la cena domestica. Per il pasto principale della giornata erano previste tre portate: antipasto di verdure, uova o frutti di mare, primo di carne o pesce e poi frutta e dolci. Senza scordare il garum, sorta di salsa fermentata a base di pesce e interiora che si utilizzava come condimento.
Potere vegetale
Proseguiamo il nostro viaggio gastronomico sul tavolo dei cereali, che ancora oggi costituiscono il principale alimento in ogni parte del mondo. Non tutti sanno, però, che se ora possiamo addentare una pagnotta, il merito va anzitutto agli agricoltori primitivi del vicino Oriente che, a partire dal VI-V millennio a.C., migrando verso l’Europa, portano con sé il grano tenero Triticum aestivum, derivato dall’incrocio tra il Triticum urartu e il Triticum tauschii. L’affermazione di questo vegetale nel nostro Paese, tuttavia, richiede molto tempo. Precisamente il tempo di passare da raccoglitori a coltivatori, di strappare alle foreste lo spazio per i campi, di imparare a tracciare i solchi nel terreno con il bastone e, dal IV millennio a.C., con l’aratro. Non stupisce, dunque, che il grano tenero in Alto Adige sia documentato dalla seconda metà del II millennio a.C. sulla collina del Ganglegg, nei pressi di Sluderno, in Val Venosta. Per raccogliere i cereali, l’uomo primitivo utilizza falcetti con lame di selce, poi sostituiti – nell’età del bronzo e del ferro – da attrezzi in metallo. Proprio come quelli esposti alla mostra «Past Food» a Bolzano: falcetti, zappe e un vomere di aratro provenienti da Appiano, dal Monte Bondone e da Fiavè, datati tra il XVI secolo e il III secolo a.C.
Frumento a parte, nell’antico Alto Adige si coltivano soprattutto farro, farro monococco e orzo (nel Neolitico e nell’età del rame), spelta e miglio (nell’età del bronzo e del ferro). Mentre su un video va in onda la Mappa di Bedolina, ovvero una delle prime rappresentazioni di campi di cereali (VII-V secolo a.C., Archivio Storico del Centro Camuno di Studi Preistorici), qualche passo più avanti incrociamo un reperto di pane carbonizzato risalente al XX-XV secolo a.C. (dal Museo delle Palafitte del Lago di Ledro) e una macina rotatoria manuale di epoca romana, usata per ridurre i cereali in farina. Prima e dopo i processi di lavorazione, i cereali venivano stoccati e conservati anche per lunghi periodi dentro pentole, doli (grandi vasi), ciotole, piatti. Al Museo Archeologico dell’Alto Adige quelli esposti, perlopiù in terracotta, vengono da Vadena, Bressanone, Dolio, Egna, Fiavè e Laives. Nonostante l’età (sono datati dal XXII secolo a.C. al II secolo d.C.), il loro design essenziale richiama spesso quello contemporaneo. Gli anni passano, ma lo stile resta.
Lasciamo la prima parte della mostra e superiamo una tenda verde. Protagoniste della prossima sala sono la frutta e la verdura. Inizialmente l’uomo preistorico (raccoglitore) si ciba di leguminose, bacche ed erbe spontanee che utilizza per integrare i pasti a base di carne, pesce e cereali. Man mano, però, impara a selezionarle e coltivarle. Sui piatti digitali in mostra scorrono le immagini della lenticchia (Lens culinaris, addomesticata nella Mezzaluna fertile 10 mila anni fa e portata in Europa 8 mila anni fa dai primi agricoltori dell’Anatolia), del pisello da campo (Pisum sativum, coltivato 9 mila anni fa nel vicino Oriente e giunto da noi 8 mila anni fa), della fava (Vicia faba, coltivata in Israele 9 mila anni fa e in Europa 3.300 anni fa)… Scopriamo che l’uomo mangia le olive dell’Olea europea sylvestris da 9 mila anni. Apprendiamo che le famose mele dell’Alto Adige, come tutti i frutti di Malus domestica, derivano in realtà dal melo selvatico asiatico (Malus sieversii), coltivato in Kazakistan già 4 mila anni fa. E ci stupiamo di fronte alla fama del noce (Juglans regia), i cui frutti vengono raccolti e consumati da oltre 12 mila anni.
Altrettanto longevo l’uso dell’uva selvatica, documentato 10 mila anni fa in Sicilia. In Alto Adige, tuttavia, la viticoltura sistematica per la vinificazione prende il via molto più tardi, nel V secolo a.C. A testimoniarlo, il rinvenimento di botti e attrezzi specifici, come quelli esposti alla mostra «Past Food»: roncole da vignaiolo, anfore, mestoli e colini, boccali, ciotole, bicchieri, brocche e bottiglie di vetro datate tra il VII secolo a.C. e il II secolo d.C. e rinvenute a Vadena, Bolzano, Terlano, Sanzeno, Bressanone, Cles e Trento. Sono tutti frammenti di una tradizione che in Italia ha preso piede sin dall’epoca romana, per quanto gli standard qualitativi di allora fossero più bassi di quelli contemporanei (per realizzare il vino, i romani rimuovevano solo parzialmente i resti della pianta e aggiungevano acqua di mare per conservarlo meglio).
Una volta approfonditi i cibi e le abitudini alimentari dei nostri antenati, l’ultima parte della mostra bolzanina si concentra sul «dopo pasto». Dove finisce tutto il cibo, una volta che è stato mangiato? Sul volto di qualche giovane visitatore si accende un fugace sorriso. Ma al di là del pudore iniziale, per l’archeologia gli escrementi rappresentano una incredibile fonte di informazioni da studiare, nel tentativo di ricostruire le abitudini nutrizionali degli antichi. La terza sala espositiva, dunque, riproduce una latrina romana rinvenuta a Ostia Antica (IV secolo d.C.), con tanto di sedute a mo’ di tavolette del wc – fianco a fianco, perché all’epoca si espletavano i propri bisogni fisiologici in pubblico – e graffiti satirici alle pareti. Agita te celerius pervenies! («Muoviti, ce la farai prima») recita la scritta meno scurrile. Lasciamo i romani alle loro esternazioni umoristiche e, prima di terminare la visita al Museo Archeologico dell’Alto Adige, scendiamo al primo piano per vedere Ötzi. Mentre attendiamo il nostro turno in coda, una bimba giunta davanti alla finestrella che dà sul corpo della mummia spalanca gli occhi e chiede perplessa al padre: «Perché è così magro? Cosa mangiava da vivo?». La risposta è a portata di piedi, giusto due piani più in alto…
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