Il cuore di Senna batte ancora
Nel pomeriggio di quella tragica domenica del 1° maggio 1994, Carlo Cavicchi, allora direttore del settimanale «Autosprint», era in redazione a San Lazzaro di Savena (Bologna). Aveva incontrato Ayrton Senna a Imola il giorno prima, e anche il venerdì antecedente. Sul circuito dell’Autodromo «Enzo e Dino Ferrari» si disputava il Gran Premio di San Marino, funestato, solo ventiquattr’ore prima, dall’incidente mortale occorso, nelle qualifiche, al pilota austriaco Roland Ratzenberger alla guida della Simtek. Quella domenica, Ayrton partiva in pole position con la sua Williams. Cavicchi e Senna erano amici da molto tempo, tanto che avevano scritto insieme il libro biografico Senna vero (Conti Editore, 1992). Al settimo giro del Gran Premio, il piantone dello sterzo cedette, e la vettura di Senna sbandò all’altezza della curva del Tamburello, schiantandosi a oltre 200 chilometri all’ora contro il muretto a bordo pista, e poi facendo una carambola. I soccorsi furono tempestivi. Ma Senna apparve subito esanime. La gravità della situazione fu evidente a tutti. Anche ai telespettatori da casa.
«In redazione sentimmo l’elicottero di soccorso passare sopra le nostre teste – rammenta Cavicchi –. Stava trasportando Ayrton all’Ospedale Maggiore di Bologna. Le prime notizie erano già molto pessimistiche e non lasciavano spazio alla speranza. Quando fu comunicata ufficialmente la sua morte, mi stavo accingendo a preparare la copertina di “Autosprint”. E non volevo che fosse una copertina banale poiché la mia amicizia con Ayrton non me lo consentiva. Per la prima volta nella storia di “Autosprint”, uscimmo con la copertina tutta nera, la testata in bianco e il titolo: È morto Senna. So quanto lui era pignolo e attento a ogni sfumatura. Altri titoli a effetto, lui non li avrebbe sopportati. La mia preoccupazione era quella di fare qualcosa che fosse piaciuto anche a lui». Trent’anni dopo, Cavicchi ha curato la mostra «Ayrton Senna Forever» allestita, fino al 13 ottobre, al Mauto, il Museo nazionale dell’automobile di Torino (www.museoauto.com) che racconta l’epica avventura sportiva del pilota di San Paolo, e la vita privata di un uomo che seppe conquistare il cuore di milioni di tifosi in tutto il mondo.
Msa. Lo sport della Formula 1, in seguito a incidenti in prova e in gara, ha pagato, in passato, un alto tributo di vittime. Ayrton Senna è una di queste. Come altri campioni, morti in giovane età, è entrato nel mito. Eppure Senna sembra ancora vivo, non è solo un mito, come se da un momento all’altro potesse sbucare fuori dai box con la sua auto da corsa. Perché?
Cavicchi. Dalla morte di Senna, per trent’anni sulle piste di Formula 1 c’è stato soltanto un morto, Jules Bianchi. Questo significa che anche i sacrifici di Ratzenberger e di Senna hanno cambiato radicalmente la sicurezza in Formula 1. Senna vive nella memoria dei tifosi e degli appassionati di motori per tante ragioni. Perché, probabilmente, è stato l’unico grande campione di Formula 1 a essere morto in «mondovisione». E questa cosa ha colpito tutti. Poi Ayrton fa ancora da termine di paragone per tutti gli altri. Oggi se un pilota va forte sulla pista bagnata dalla pioggia, si dice che ricorda Senna; se fa un grande sorpasso o conquista la pole position, si dice che ricorda Senna. Quando si fanno paragoni, il nome di Senna è quello che viene usato di più.
La tragedia di Senna a Imola ricorda un po’ quello che capitò nel 1982 al pilota canadese Gilles Villeneuve, morto in seguito a un incidente durante le prove sul circuito di Zolder, in Belgio, con la Ferrari.
La morte di Villeneuve risale a dodici anni prima di quella di Senna, quando c’erano vetture estremamente meno sicure. Nel caso di Senna, ci fu la rottura del piantone dello sterzo della sua Williams, che lo mandò fuori pista. Dopodiché la sorte ci mise lo zampino. La macchina andò a sbattere e, purtroppo, un pezzo della sospensione anteriore si infilò nell’unico punto vulnerabile del pilota: la visiera del suo casco. Fosse stato un centimetro più in là, il braccio della sospensione avrebbe fatto solo un segno sul casco, e Senna sarebbe sceso dalla sua vettura senza problemi, e avrebbe continuato a correre.
Com’erano Senna e Villeneuve sul piano tecnico e caratteriale?
Erano tremendamente diversi. Villeneuve era tutto coraggio, anche in situazioni disperate. Senna, invece, tutte le cose che faceva – i sorpassi più difficili, le imprese impossibili – erano sempre calcolate. Non lasciava mai niente al caso, preparava tutto. Era un pilota completo. Villeneuve eccitava le folle in maniera incredibile poiché aveva un modo di fare che catturava l’immaginario collettivo. Tutti pensavano che nessuno avrebbe potuto imitare quello che faceva il pilota canadese. Per questo motivo era molto amato. Ma sul piano sportivo, Senna era un’altra cosa.
Parliamo di Senna alla Ferrari. Un matrimonio sportivo saltato all’ultimo momento.
Enzo Ferrari chiamò Ayrton Senna. E loro si videro ancora all’inizio della carriera del pilota di San Paolo. Ma all’epoca non se ne fece nulla. Enzo Ferrari era comunque affascinato da lui. A sua volta, Senna rimase molto colpito dal carisma di Ferrari. Enzo morì nel 1988. Nel luglio del 1990 Senna firmò un contratto con la «Rossa». Cesare Fiorio portò avanti tutta la trattativa e accettò le condizioni poste dal pilota italo-brasiliano. Ma in quel periodo Alain Prost era in testa al Mondiale piloti di Formula 1 con la Ferrari (il Campionato del 1990 fu vinto da Senna, ndr), e nessuno a Maranello se la sentì di mettere in discussione la posizione di Prost, temendo che il pilota francese si sarebbe arrabbiato. Fatto sta che la Ferrari decise, per certi versi disgraziatamente, di dire di no a Senna che aveva già firmato il contratto.
Nell’ambiente della Formula 1, dominato da denaro e mondanità che spesso offuscano le prestazioni sportive, la figura di Senna spiccava per il suo approccio mistico alla vita. In valigia portava sempre la Bibbia. E spesso diceva di vedere Dio accanto a sé, in pista. Com’è nata la sua religiosità?
In realtà è nata e cresciuta anno dopo anno. Ayrton ha sempre dichiarato di avere fede in Dio. Ripeteva di vederlo in certe situazioni. In tanti Gran Premi, via radio, sentivano che Senna diceva: «Ho visto Dio, mi ha fatto vincere», in particolare, una volta, al Gran Premio di Monaco, a Montecarlo. E di questa sua religiosità parlava apertamente generando qualche «problema» anche tra gli altri piloti. C’era chi lo prendeva in giro o insinuava che Senna fosse pericoloso in pista per gli altri, dato che credeva in Dio e, forse, pensava di essere immortale. Insomma la sua fede venne un po’ usata contro di lui. La mattina di quel fatale 1° maggio 1994 lesse un versetto della Bibbia, dalla Seconda lettera ai Corinzi: «Siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo» (2 Cor 5,6).
Un versetto assai profetico. Eppure questa ispirazione lo ha seguito anche dopo la morte. La sorella di Ayrton, Viviane, ha dato vita a una fondazione che porta il nome del pilota (https://institutoayrtonsenna.org.br), e che promuove e sostiene la didattica e l’educazione di bambini e ragazzi brasiliani per sviluppare i loro talenti.
Per la verità, Ayrton si era già prodigato parecchio quando era in vita, peraltro senza renderlo pubblico. Amava moltissimo i bambini tanto che aveva fatto costruire asili, una scuola, un ospedale. E l’«Instituto Ayrton Senna» ha continuato il suo impegno personale. Per molti anni, Senna ha rappresentato il Brasile che vinceva, che ce la faceva, un po’ come la Seleção, la nazionale di calcio verde-oro, in anni durissimi nei quali il Paese latino-americano lamentava un’inflazione elevata, con la moneta che veniva continuamente svalutata, ed era attraversato da complessi problemi sociali. Senna riusciva a trascinare i brasiliani. E aveva una notevole capacità imprenditoriale. In vita aveva messo in piedi un impero economico e gestiva tantissime attività. Sono sicuro che dopo la carriera in Formula 1 avrebbe potuto diventare il presidente del Brasile poiché era amatissimo e aveva tutte le qualità culturali, mentali e manageriali necessarie per guidare un grande Paese.
Senna era di origine italiana, per parte di madre. Come viveva questa sua identità?
Intanto gli piaceva la pastasciutta. Lui andava matto per gli spaghetti con l’olio e il parmigiano anche perché stava sempre attento alla forma fisica. Poi parlava bene la nostra lingua grazie al fatto che, in casa, la sua nonna Marcellina Di Santoro, mancata nel 1989, parlava l’italiano. Ayrton era molto affezionato alla nonna Marcellina, e soffrì molto quando lei morì. Poi ad Ayrton piaceva l’Italia. Era una persona tranquilla, non il solito caciarone italiano. E ha sempre manifestato un forte attaccamento al nostro Paese.
Gli sport automobilistici sono radicalmente cambiati in questi ultimi trent’anni. Alla centralità del pilota è subentrato il primato della tecnologia che sembra dominare ogni aspetto delle gare. Oggi Ayrton Senna come si troverebbe in questa Formula 1?
Si troverebbe benissimo. I campioni sono tali, sempre. E sono convinto che i grandi campioni di oggi, anche con le auto di epoche passate, avrebbero guidato bene lo stesso. Analogamente, non è che piloti come Fangio e Nuvolari non saprebbero guidare le macchine moderne. Si sarebbero semplicemente adeguati alle regole di oggi.
La mostra al Museo nazionale dell’automobile di Torino cosa racconta di Senna?
Abbiamo fatto un allestimento su due livelli: una parte con quello che tutti si aspettano, cioè le macchine vere che Ayrton ha guidato, le sue tute, i suoi caschi. E l’altra parte con pezzi che un visitatore non si aspetta, oltre a 114 foto realizzate dai più importanti fotografi, 146 libri usciti in tutto il mondo e in tutte le lingue su Senna in cui si raccontano anche aspetti inediti della sua vita.
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