02 Aprile 2021

«Scambiatevi uno sguardo di pace»

La pandemia di covid-19 ci ha dato l’occasione di riflettere su quale sia davvero l’essenziale della nostra vita di fede. 
«Scambiatevi uno sguardo di pace»

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«Carissimo direttore, sono una fedele abbonata da molti anni. Argomenti e rubriche variegate accompagnano ogni mese la mia lettura. Le sue risposte, sempre chiare, spesso diventano insegnamento per me. Molte volte ascolto la S. Messa alla televisione. Di recente, durante una di queste audizioni, non ricordo più da quale città, ma ricordo, invece, molto bene la gioia che ho provato, ho sentito, dopo la consueta formula “la pace sia con voi”, dire “datevi un segno di pace con lo sguardo”. Ho osservato il gesto dei fedeli guardare con occhi sorridenti il vicino. È stato bello! Si sono sentiti una vera comunità. È proprio questo che è mancato in questo periodo in cui non si è potuto stringere la mano. Ci si sentiva una massa informe di persone, tutte distanziate con la mascherina, timorosi. Pensavo che questa formula fosse stata adottata in tutte le chiese, ma, invece, non l’ho più sentita pronunciare. Qual è la sua opinione in merito?».
Maria - Treviso

Questo tempo di pandemia ha messo in difficoltà tutti noi, nessuno escluso. Direi, anzi, che ognuno è stato coinvolto da tutti i punti di vista: già in quanto uomini o donne, adulti o ragazzi, studenti o medici, ristoratori o guide turistiche, di sana e robusta costituzione fisica o già affetti da patologie. Ognuno è stato davvero toccato sul vivo di ciò che è e di ciò che fa: tutti hanno dovuto ripensarsi a partire anche dai particolari della propria vita concreta, riscoprire pieghe nascoste ma essenziali di sé, inventarsi nuovi linguaggi, strategie o comportamenti pur di salvare le cose importanti. Dopo aver dovuto decidere e scegliere più che mai quali queste davvero fossero. E a tutto ciò non hanno potuto sottrarsi neppure i credenti delle varie religioni, di fatto impossibilitati o almeno impediti a vivere alcune delle loro manifestazioni concrete di fede: per esempio, partecipare ai riti della propria religione nello specifico luogo di culto, chiesa o moschea che fosse, limitarsi nei gesti con cui si è soliti esprimersi, costretti a starsene fisicamente «distanziati» dal resto della propria comunità d’appartenenza e così via.

A questo punto le reazioni potevano essere di due tipi. La prima: arrabbiarsi, invocare una libertà di religione messa in questione, o, peggio!, accampare spiegazioni «teologiche» astruse e fuori da ogni grazia di Dio: che la particola consacrata in quanto tale non poteva certo trasmettere il virus, e altre simili. La seconda: approfittarne per capire ancora meglio che cosa fosse l’essenziale della nostra vita di fede, ciò di cui potevamo eventualmente sentire la nostalgia e il bisogno impellente, riscoprendo così il valore di quanto vivevamo già prima, ma forse con ben poca attenzione e partecipazione

Ma soprattutto, come ci ricorda la nostra lettrice, inventarci con fantasia altri «contenitori», gesti, segni, espressioni corporee con cui esprimere con ricchezza la stessa e unica fede: non ci si scambia la pace dandoci la mano, ma non è che non ci si scambia più la pace! Prima decidiamo che cosa ci interessa dire e vivere, poi possiamo trovare, di volta in volta e secondo le situazioni, il mezzo adeguato per realizzarlo nel migliore dei modi possibili. In fondo così già fanno ogni giorno i nostri fratelli e sorelle in terra di missione. Avrà comunque sentito, cara lettrice, che in una nota risalente a fine gennaio i vescovi italiani hanno suggerito a tutte le comunità proprio il gesto da lei citato.

Data di aggiornamento: 02 Aprile 2021
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