Scardinati dal Vangelo
«C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere» (Qo 3,4). Le sentenze che troviamo nel Qoelet sono sempre molto dirette e ci portano a riflettere sulla nostra condizione umana, che riassume in sé comportamenti molteplici, anche opposti tra loro; tuttavia, è così che esprimiamo non solo i sentimenti che ci abitano, ma soprattutto la nostra visione del mondo. Se fosse sempre il tempo del pianto, la nostra prospettiva sarebbe segnata da una continua tristezza, legata alle situazioni avverse e dolorose che purtroppo spesso sono presenti nella nostra vita. Ma c’è anche un tempo della gioia, che nasce anzitutto dall’incontro con l’altro, specialmente quando possiamo condividere la verità, la bellezza e la bontà.
La gioia ha un tratto sorprendente: va al di là delle attese, interrompe la monotonia dell’esistenza chiedendo di essere accolta come una lieta novità. Attenzione, però: non è scontato che venga accolta! A volte rimaniamo molto legati alla nostra tristezza, agli schemi abituali e forse un po’ troppo rigidi che finiscono con l’impedirci di uscire dal tempo del pianto. L’annuncio del Vangelo, la buona notizia per eccellenza, va nella direzione di un rovesciamento: perché porti gioia deve scardinare alcune resistenze. Un esempio è quello delle parabole: il lettore si aspetta che il racconto finisca in un certo modo, ma la sua attesa viene spesso contraddetta da Gesù. È più usuale che un figlio prodigo venga redarguito dal padre, che questi lo rimproveri; un operaio che lavora per più tempo ha diritto a una ricompensa maggiore, non a un denaro come a quelli dell’ultima ora; quale pastore lascia il suo gregge nel deserto per cercare una pecora smarrita? Nessuno: non vorrete mica che rischi di perderle tutte!
Con le parabole Gesù sorprende, mettendo in discussione gli assunti del suo tempo (e anche del nostro): questo modo di parlare lascia interdetti, crea un cortocircuito che rompe gli schemi usuali. Tutto ciò è necessario per poter ascoltare una parola nuova: l’obiettivo del Signore non è sconvolgere qualcuno, ma rivelare il volto del Padre. Per fare questo, anzitutto dissoda il terreno, ribaltando un assunto comune per annunciare l’originale novità dell’agire di Dio. L’operazione, però, incontra opposizione, soprattutto da parte di chi prende tutto troppo sul serio, pretende molto da se stesso e dagli altri, vive sotto gli occhi di un Dio giudice secondo i precetti della legge.
Un antidoto a tale atteggiamento si può trovare in due parole care alla spiritualità cristiana: umiltà e umorismo. La prima serve per accogliere il proprio limite, rinunciando alla pretesa di perfezione basata sull’impegno personale. A volte, però, associamo l’umile al rassegnato: riconosce le sue fragilità e si adatta a sopportarle, restando infelice, perché non riesce a relativizzare la delusione che sperimenta, a sorridere di se stesso, a prendere le cose con un po’ di sano umorismo. Ecco la seconda parola, umorismo: un’attitudine profondamente umana, che consiste nel comprendere con simpatia, benevolenza e leggerezza quanto ci accade e ciò che siamo, con uno sguardo che è simile a quello di Dio su di noi (per papa Francesco, «l’umorismo è l’attitudine umana più vicina alla grazia di Dio»). Ne abbiamo tutti bisogno: come diceva Chesterton, c’è una tendenza naturale «a prendersi sul serio perché è la cosa più facile a farsi. È più facile scrivere un buon articolo di fondo per il “Times” che un buon motto di spirito per il “Punch”. La solennità discende dagli uomini naturalmente; il riso è uno slancio. È facile esser pesanti, difficile esser leggeri. Satana è caduto per la forza di gravità».
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