Ho paura del tuo giudizio

Siamo liberi, ma ogni tanto ci piace incatenarci da soli. La paura del giudizio degli altri è una delle catene che ci può imprigionare per tutta la vita, impedendoci di dare il meglio di noi.
24 Aprile 2023 | di

Si può avere paura della cosa che più desideriamo, a cui più aneliamo? La libertà è una delle aspirazioni più grandi di noi esseri umani, perché si declina con la possibilità di realizzare noi stessi, di diventare autonomi, di scegliere chi vogliamo essere e come vogliamo vivere. Allora, come si può aver paura della libertà? Il fatto che può inquietare è che la libertà ci costringe a scegliere e a prenderci la responsabilità della nostra vita. E questo non sempre ci piace. Preferiamo crogiolarci nell’idea che non siamo poi così liberi, che i nostri genitori ci hanno ferito, che quella malattia ci ha limitato, che quella crisi ci ha fatto vacillare e che quel fallimento ci ha debilitato e reso impotenti. Lo scriveva, con molta sagacia, Erich Fromm in un piccolo ma poderoso libro intitolato Fuga dalla libertà: «L’uomo crede di volere la libertà, in realtà ne ha una grande paura, perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni e le decisioni comportano dei rischi». 

Di fatto, molti filosofi e scienziati da qualche decennio mettono addirittura in discussione il fatto che noi siamo davvero liberi. Ogni tanto qualche forma di determinismo, filosofico o scientifico, fa capolino e si affaccia all’orizzonte della cultura, insinuando nel cuore dell’uomo che, per quanto lo desideriamo, non siamo davvero liberi e che siamo solo il prodotto del nostro inconscio, dell’ambiente in cui siamo cresciuti e dell’attività neuronale dei nostri cervelli. Eppure, nonostante inevitabili e incontestabili condizionamenti, «l’uomo è condannato alla libertà» (Sartre) e questa è la cifra della nostra fragile e meravigliosa umanità. Noi siamo più della storia che ci ha partorito: siamo ciò che scegliamo di essere. L’uomo non è riducibile a una marionetta, manovrata da chissà quale sadico e imperscrutabile destino che ci vorrebbe tutti conformati e obbedienti alla dittatura del pensiero unico. L’uomo è più di una formula matematica e la sua mente è qualcosa di più del mero prodotto di un computer di carne. L’uomo è di più, ed è proprio il mistero insondabile della sua libertà a renderlo tale. 

In una delle pagine più belle del suo libro, Il codice dell’anima, lo psicoanalista James Hillman ammonisce: «Se accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare, alla luce dei miei primi anni di vita, ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo sarà la sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall’eredità ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali». Se non vogliamo che la nostra vita sia la sceneggiatura scritta dal destino o la biografia di una vittima, dobbiamo accettare il rischio della libertà. Libertà che si presenta sempre come un dramma, e questo gli esistenzialisti, da Sartre a Camus, lo avevano capito bene. Così come Dostoevskij, nella Leggenda del Grande inquisitore, all’interno del romanzo che più di ogni altro ha influenzato la mia vita, I fratelli Karamazov: «Nulla fu mai per l’uomo e per la società umana più insopportabile della libertà». 

Gli uomini preferiscono rimanere schiavi? Alcuni psicologi contemporanei, e tra questi ci sono anch’io, parlano delle catene dei liberi. Siamo sostanzialmente liberi, ma ogni tanto ci piace incatenarci da soli. La paura del giudizio degli altri, per esempio, è una catena che ci può imprigionare per tutta la vita, impedendoci di dare il meglio di noi. E che cos’è la paura del giudizio se non la paura di non essere accettati per quello che siamo? La paura del giudizio è sostanzialmente paura di essere rifiutati, non amati, non riconosciuti per quello che si è veramente. Talvolta preferiamo abdicare a una parte della nostra libertà pur di conformarci al volere degli altri; pur di essere accettati, siamo disposti a qualunque compromesso, anche a costo di perdere dignità e rispetto per noi stessi. Tutti noi desideriamo essere accettati e apprezzati: questo è un desiderio che ci accomuna e che, in qualche misura, ha consentito la nostra evoluzione di esseri umani. Ma le conferme esterne del nostro valore non basteranno mai: che cosa penseranno di me? Valgo qualcosa? Ho fatto bene? Sono piaciuto? Non saremo mai, per quanto ci sforziamo, abbastanza belli, abbastanza intelligenti, abbastanza bravi e brillanti come genitori, come marito o moglie, come studenti. Non saremo mai abbastanza…

La libertà ci interroga veramente sulla nostra vita, ci chiede di rispondere, nelle pieghe del nostro scegliere e agire quotidiano, all’appello inevitabile della responsabilità: che cosa ne facciamo di tutta questa libertà? Come la usiamo? E come liberarci dalle catene, spesso dalle lenze invisibili che ci impediscono di volare, di sognare e che ci mettiamo da soli? Non esiste una sola qualità della libertà, ma più modi di viverla e di esprimerla. Esiste una libertà di, la libertà, cioè, di esprimersi, di viaggiare, di scegliere il lavoro che vogliamo, di votare, di vivere con chi vogliamo. Esiste poi la libertà da: la libertà di non essere schiavi di una dipendenza o dei legami umani che imprigionano e non fanno crescere, non danno spazio per individuarci pienamente. Esiste, infine, una libertà per, la più difficile perché esige responsabilità. Per chi o che cosa vivi? 

Uno dei miei maestri, Viktor Frankl, il padre della logoterapia, concepita nei lager di Dachau e di Auschwitz, amava ripetere che oltre a porre la statua della libertà sulla East Coast, a New York, gli americani avrebbero dovuto porre anche la statua della responsabilità sulla West Coast, a San Francisco, perché la libertà senza la sorella responsabilità è pericolosa. La schiavitù è una catena mentale, la paura del giudizio è una catena dei liberi e finché non scegliamo di vivere all’altezza del nostro desiderio, le schiavitù ci terranno sempre in ostaggio. La paura del giudizio degli altri è soprattutto paura del confronto, paura di non essere all’altezza. Ma domandiamoci: di chi dobbiamo essere all’altezza, se non del nostro desiderio? E il desiderio, che non sono le voglie passeggere o i capricci del nostro animo inquieto, è ciò che rende la vita viva. È ciò che ci rende vivi pienamente e non solo vegeti. 

Di fronte al timore costante, subdolo e suggestivo, di non valere mai abbastanza, risuonano in me, consolanti e perentorie, le parole di Dio al suo popolo diletto: «Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe, / che ti ha plasmato, o Israele: / “Non temere, perché io ti ho riscattato, / ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. / Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, / i fiumi non ti sommergeranno; / se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, / la fiamma non ti potrà bruciare, / poiché io sono il tuo Dio, / il Santo d’Israele, il tuo salvatore. […] / Poiché tu sei prezioso ai miei occhi, / poiché sei degno di stima e io ti amo.» (Is 43,1-4).

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Data di aggiornamento: 24 Aprile 2023

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