Quel che ci salva
«Non lo tocchi, non lo tocchi, è pericoloso, potrebbe avere malattie!». Un incidente sulle strisce, il piccolo mondo convenuto aspetta l’ambulanza, un signore in età è a terra, ferito alla testa e alle mani, c’è sangue intorno, una pioggia sporca, la pioggia di pianura dopo tanta siccità, lo bagna tutto. L’intenzione della ragazza è solo coprirlo con l’impermeabile bianco che si è appena tolta. Tante mani la fermano veloci e zelanti. Lei si strappa con decisione dalle strette e distende con cura l’impermeabile sull’uomo che istintivamente alza la destra e la appoggia sopra, piccola protezione del corpo ferito. L’impermeabile si macchia di sangue. Ecco vede? Dicono quelli di prima. L’ambulanza arriva, niente di grave sembra, il piccolo mondo curioso, raccolto a opportuna distanza, si disperde.
Restare umani è pericoloso. Ce lo ricordiamo l’un l’altro a ogni occasione. È pericoloso scambiarsi favori. Se siamo giovani e abbiamo bambini, guai portare a casa in auto il figlio di un’amica, è pericoloso, e se succede qualcosa? Si arrangino i genitori a trovare la soluzione. Si organizzino. Se siamo anziani e ci troviamo impicciati nei mille fili della burocrazia, guai a offrirci in reciproco aiuto perché chissà che cosa pensano i parenti, magari che stiamo approfittandone e cerchiamo il nostro tornaconto, ci pensino loro.
È pericoloso essere anche moderatamente generosi con i poveri per strada. Sono tutti falsi e profittatori e se li aiutiamo si alimenta il loro gioco e comunque del disagio sociale (potere delle espressioni falsamente neutre che oscurano la presenza del nostro essere persone vive e degne) deve occuparsi il comune. È pericoloso fare donazioni anche più strutturate, perché le Ong sono tutte associazioni di loschi affari e ci guadagnano lautamente a ogni persona che imbarcano, e in tv abbiamo visto che la beneficenza se la intascano i profittatori.
E poi, fare volontariato anche no, perché tocca allo Stato risolvere i problemi. E infatti sono in affanno le associazioni, anche storicamente ben radicate, di volontariato. Non c’è ricambio. I giovani vengono, fanno un’esperienza che trovano magari bella e interessante, ma poi vanno. Li abbiamo educati così. Ci siamo diseducati l’un l’altro a occuparci di chi ha un qualche bisogno. Abbiamo coltivato sfiducia nei pensieri e nelle parole. E questo è un disastro per la nostra convivenza. Perché non si vive senza fiducia. La sfiducia ci impedisce di vedere il bene di chi ci sta vicino. Tutto è frainteso, tutto è tossico e avvelenato.
Coltivare la sfiducia può darsi che ci preservi. Da malintesi? Da pettegolezzi? Da guai? Di sicuro ci impedisce di essere persone amabili e amanti. Di sicuro ci impedisce di essere cristiani, perché il Vangelo è un inno festoso alla fiducia. In Dio, certo, in quanto abitiamo «al riparo dell’Altissimo» (Sal 91,1), ma anche negli uomini e nelle donne. Non è noto un elenco ordinato di meriti e qualità che abbiano dato accesso alla sequela, che abbiano convinto Gesù a chiamare discepoli intorno a sé.
La vita rinasce da una fiducia data senza condizioni. Matteo non fa previ giuramenti di onestà quando Gesù lo chiama per nome, l’adultera se ne va libera e salva senza condizioni, l’uomo soccorso dal Samaritano non ha un certificato di buona condotta in tasca, la Samaritana al pozzo ha forse qualche nota di condotta non proprio esemplare sul suo curriculum. Ma Gesù riconosce che ogni uomo e ogni donna è una persona piena di valore, è destinataria di fiducia: questo mette in moto le vite e le fa rinascere una a una. E allora, con gli occhi fissi al Maestro, è possibile tutto, anche morire per gli altri. Anche cambiare così il destino del mondo.
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