«Io, sposa bambina mancata»
Cinque giorni. Tanto sarebbe dovuto durare il suo viaggio in Siria per conoscere i parenti, le cugine e una terra dalla bellezza che toglie il respiro. Cinque giorni diventati, senza preavviso, 399: perché la vacanza carica di sogni e di aspettative di questa giovane di origini siriane ma cresciuta in Italia, in realtà era una trappola. La storia di Amani El Nasif, oggi trentaduenne, è quella di una sposa-bambina che però si è salvata. Fatta tornare nel suo Paese con l’inganno e la complicità della madre. Scampata, quando ormai sembrava impossibile, a un destino già segnato. Amani ha 3 anni quando i suoi genitori lasciano la Siria per venire in Italia. Dopo qualche anno il padre abbandona la famiglia. La mamma si stabilisce in Veneto, a Bassano del Grappa (Vicenza), dove cresce da sola i sei figli ancora piccoli. Quando Amani compie 16 anni, ritorna per la prima volta in Siria con sua madre. Ma quel soggiorno nella sua terra d’origine si fa inaspettatamente lungo e allora lei comincia incessantemente a chiedere: «Quando torniamo a casa?». Le risposte sono vaghe. Prima le parlano di ritardi al consolato, poi tirano fuori scuse sempre più strane, la verità affiora solo alla fine. A dirgliela è la madre stessa: per lei non è previsto alcun volo di rientro. In quel paesino sperduto dov’era nata, Amani era attesa da una storia già scritta: il matrimonio combinato con un cugino di dieci anni più grande. Lei si rifiuta, e allora arrivano le botte. E la segregazione in casa per tredici lunghissimi mesi, ostaggio della sua stessa famiglia.
L’incubo, all’improvviso
I lunghi capelli neri, il velo di trucco e il rossetto rosso sulla labbra fanno assomigliare Amani a Saman Abbas, la diciottenne di origini pachistane accompagnata fuori casa dai genitori con uno stratagemma, una sera di maggio a Novellara (Reggio Emilia), per poi essere uccisa perché si era rifiutata di sposare un cugino in Pakistan. Quando la incontriamo, il suo racconto parte proprio da quell’estate che le strappò il tempo dell’adolescenza: «Ero una ragazza normalissima di 16 anni. Frequentavo il primo anno delle superiori, ero innamorata della vita, ma soprattutto del mio ragazzo, Andrea – rammenta –. Era luglio, la scuola era finita e mi stavo godendo i primi giorni di vacanza quando mamma, una mattina, mi disse che saremmo dovute recarci in Siria. “Ci sono dei problemi al tuo passaporto: una vocale da cambiare, una ‘A’ al posto della ‘E’ nel cognome, sarà questione di pochi giorni”, mi rassicurò». «Salii su quel volo felice di andare a conoscere le mie radici – continua –, il mondo dal quale provenivano i miei genitori. Mio padre era lontano, da qualche parte in Europa, da tempo aveva abbandonato la famiglia. Pensavo che in Siria forse avrei potuto capire un po’ più di lui e sentirlo meno distante. In qualche modo mi mancava quel pezzo di me. Invece, mi aspettava un matrimonio combinato. Quando lo scoprii, al mio rifiuto fui sequestrata: “Non rivedrai più l’Italia”, mi dissero».
A complicare le cose anche Andrea, quell’amore italiano segreto «che poi tanto segreto non era. Pensavo che mamma non sapesse niente di lui, invece sapeva ogni cosa. E in Siria tutti disapprovavano. I fratelli di mio padre mi consideravano una ragazza che dava scandalo: in Italia amavo truccarmi, mettere le gonne, non indossare il velo, uscire con il mio ragazzo». La scoperta del matrimonio combinato avviene per caso. Amani, che conosce solo poche parole di arabo, un giorno sente gli zii discutere di un fidanzamento e fare il suo nome. «Dissi subito di no, che non avrei fatto quello che mi dicevano, non avrei mai sposato quel cugino che non avevo mai visto e conosciuto. Gli zii allora iniziarono a picchiarmi, costringendomi a prendere sedativi e cortisone per rendermi accondiscendente. A volte mi ci imbottivo da sola per allontanarmi da una realtà per la quale non vedevo via di uscita. Ho vissuto prigioniera, “libera” solo in casa. Sono rimasta chiusa per giorni in stanze piccolissime. L’unico spazio all’esterno era una terrazza su cui salivo spesso, ma dove non c’era nessuno intorno con cui poter parlare».
Amani cerca di resistere. Ad aiutarla anche la musica, ascoltata grazie a un piccolo mp3 nascosto nel reggiseno, il volume al minimo, una cuffietta nell’orecchio coperta con il velo. Quando tutto è deciso e gli zii paterni hanno già programmato le nozze, accade qualcosa di inaspettato. «La luce in fondo al tunnel arriva da uno dei parenti, a dimostrazione che non tutti gli uomini sono uguali, in Siria come in ogni Paese del mondo, e che la libertà e il rispetto dei diritti vengono prima di ogni imposizione, perché la violenza erige solo muri. La salvezza è un cugino di mio padre, professore all’Università di Aleppo. Papà, intanto, era improvvisamente ricomparso nella mia vita, in Siria, per questo matrimonio combinato. Voleva tornare a vivere in Italia, ma per riuscirci doveva fare in modo che mia madre rientrasse per prima e procedesse alla richiesta di un ricongiungimento familiare per lui. Mia madre, però, gli disse che senza di me non sarebbe mai partita. Fu allora che quel cugino si rivelò determinante, visto che riuscì a convincerlo a lasciarmi rientrare con la mamma».
«La mia vittoria»
Oggi Amani è una donna libera. Dopo aver ottenuto, nel 2016, la cittadinanza italiana, ora lavora in uno studio di progettazione e ha una figlia, Vittoria, «la mia vittoria!» come ama ripetere. Molte scuole la chiamano a raccontare la sua storia. «Non ho nulla da insegnare – esordisce davanti agli studenti –, voglio solo far capire che ogni vita si merita di crescere libera». Un giorno, durante uno di questi incontri, un ragazzo di nome Jacopo alza la mano e le pone la domanda forse più difficile: «Hai mai perdonato tua madre?». Amani non si tira indietro. «Non so se ho perdonato – risponde –. Il perdono esige un lungo percorso di consapevolezza e riconciliazione, prima di tutto interiore. Col tempo, ho cercato di mettermi nei panni di mia madre, di pensare con la sua testa, di chiedermi chi fosse e che cosa facesse alla mia età. È stato allora che tutto si è dispiegato in maniera chiara. Non me la sento di giudicare e di condannare, tento solo di comprendere».
Questo percorso di perdono prende avvio in un momento particolarmente difficile per Amani. Le sofferenze della prigionia le hanno lasciato ferite nella psiche e nel corpo: attacchi di panico, una malattia autoimmune e un’infezione che la costringe a un intervento d’urgenza. Le risposte le arrivano proprio su quel letto di ospedale. «Un pomeriggio squillò il telefono: era mia madre – racconta –. Erano anni che non la sentivo. Faticavo a distinguere le sue parole, perché ero in uno stato di dormiveglia e di dolore. Lei capì subito che non stavo bene e, senza chiedermi nulla, cominciò a parlarmi di quando lei era bambina. Quasi sottovoce mi disse che, da piccola, era un po’ come me. Meno ribelle, visto che in Siria all’epoca la condizione delle donne e delle bambine era ancora più arretrata, ma era comunque pronta a sfidare le tradizioni. Ci teneva a essere presentabile, anche in casa, e amava truccarsi, come se da un momento all’altro dovesse incontrare un promesso sposo. La risposta, anche per lei, erano state quasi sempre botte e punizioni corporali, per costringerla a rinunciare a una parte di sé, quella che voleva decidere per se stessa. Tutto questo mia madre lo ha recuperato negli anni, con grande fatica, costretta a misurarsi giorno per giorno con sei figli da crescere, in una terra che non era la sua. In quel momento ho capito che anche a lei era stato tolto qualcosa di importante. Sono figlia di mia madre più di quanto non abbia mai voluto ammettere. Anche per questo, oggi, so che potremo contare sempre una sull’altra».
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