I bambini di Tekle
Le ombre create dagli alberi, lungo il viale che taglia in due la cittadina di Axum, si sono allungate creando giochi geometrici sulle piastrelle dei larghi marciapiedi che corrono paralleli alla strada. In questo angolo di mondo a pochi chilometri dal confine eritreo tra un po’ il sole tramonterà. Passeggio senza una meta precisa, curiosando tra i dettagli di questa culla dell’antica civiltà axumita. Mi colpisce un cartellone isolato tenuto in piedi da due bastoni sgangherati. Nulla a che vedere con lo stile quasi kitsch, usato in buona parte della città per richiamare le attenzioni più varie. I colori sono sobri: azzurro tenue e bianco ingiallito dai gas di scarico delle poche auto che circolano da queste parti. La ruggine ha intaccato buona parte del cartello: la scritta «SOS Enfant Ethiopian» è diventata quasi illeggibile. C’è anche una freccia che invita a seguire una strada sterrata, e la distanza da percorrere per arrivare a destinazione: 200 metri.
Mi avvio nella direzione indicata dal segnale e, in breve, facendomi largo tra alcuni ragazzini che chiedono denaro e penne biro, mi ritrovo davanti a un cancello in ferro, socchiuso. Attraverso la fessura dell’inferriata scorgo un cortile ben ordinato: c’è movimento all’interno. Provo a farmi notare bussando nella parte superiore dell’anta, dove la lamiera è meno spessa. Mi apre una giovane donna che parla qualche parola d’inglese. È una baby sitter impegnata nel suo turno di lavoro, mi invita ad entrare. Dice di chiamarsi Mary e di essere una volontaria che si occupa dei bambini orfani più piccoli ospitati nella struttura. Il responsabile dell’associazione è al momento fuori sede, ma un ragazzino è già andato ad avvisarlo della mia presenza.
Passano solo poche decine di minuti prima che un imponente signore anziano mi si presenti davanti allungandomi la mano per darmi il benvenuto. Si chiama Tekle Waldelassie, è il social worker di «Sos Enfant Ethiopian»: l’angelo custode dei bambini orfani di Axum. Il Signor Tekle, oltre ad aver fondato questo orfanotrofio nel Tigray, è anche un punto di riferimento per le associazioni di promozione sociale più importanti che operano ad Addis Abeba. Personalmente si occupa della cura e dell’approvvigionamento dei generi di prima necessità di cui i bambini hanno bisogno. Vuole rendere la vita dei piccoli ospiti il meno disagiata possibile e ridare la dignità negata ai bambini più sfortunati.
Tekle è orgoglioso di poter parlare dei propri bambini a uno straniero. Lo fa gesticolando, con entusiasmo. Racconta del tempo che passa mentre il mondo sembra essere sempre più sordo: le giornate dei bambini trascorse nel cortile, in compagnia della maestra, le visite di un medico volontario che si preoccupa della salute dei più piccoli, la raccolta di nuovi vestitini che, grazie all’aiuto di alcune sarte dei villaggi vicini, vengono adattati alla taglia di ogni bambino. Tekle mi accompagna nel piccolo dormitorio mostrandomi le culle dei neonati e i lettini dei più grandicelli. C’è anche una bella sala refettorio che, all’occorrenza, diventa sala di ricreazione. I bambini possono giocare, ma anche vedere i cartoni animati attraverso una vecchia televisione collegata a un videoregistratore: Topolino, La bella addormentata nel bosco, Heidi, Biancaneve e i sette nani, ma anche Harry Potter e qualche vecchio film di Walt Disney.
Anche se in questo momento ci sono solo cinque bambini, all’occorrenza la struttura ne può ospitare fino a otto. Abeba, Letemariam, Girmanesh e i due fratellini Abadit e Samson sono gli orfani che attualmente abitano la «casa» di Tekle. Li osservo attraverso la finestra del dormitorio: stanno giocano nel cortile. Silenziosamente si passano una grossa palla gonfiabile. Sono troppo quieti per la loro giovane età, sembrano privati della gioia di essere bambini. Tekle li osserva con l’amore di un padre, anche se domani lasceranno questa «famiglia». Accompagnati da uno psicologo, voleranno sopra i cieli d’Etiopia per raggiungere Addis Abeba, dove nuovi social worker si occuperanno di loro per alcuni mesi, in attesa dell'adozione in famiglie francesi o americane.
Il cielo si fa minaccioso, le nuvole rasentano la terra: tra poco pioverà. I bambini corrono verso il refettorio, dove la baby sitter ha già provveduto ad avviare il videoregistratore: Godzilla farà sgranare gli occhi di tutti. Me compreso. Mi siedo su uno sgabello portando gli occhi all’altezza dei loro visi, ma non guardo il cartone animato: osservo le espressioni dei bambini. I loro sguardi incollati al monitor, immobili, nel loro respiro che sembra essersi arrestato. Palpitano cuori sereni in questa «famiglia» allargata, dove il profumo della cena già aleggia nell’aria. Qualcuno sta già addentando un pezzo di pane «rubato» nella dispensa, mentre altri sono ancora immersi nel fascino del cartoon.
I piatti sono allineati sulla tavola, i fornelli già spenti. È l’ora di cena. Ci salutiamo, mentre i bambini si sono già messi in fila per «battere il cinque». Tekle mi stringe la mano energicamente, rammentandomi di non dimenticare i suoi piccoli angeli. Ababa, Abadit, Samson, Latemariam e Girmanesh, domani inizieranno una nuova vita. Non vedranno mai più il loro villaggio, o forse sì, ma solo quando saranno cresciuti. Se Dio vorrà. Forse mai nessuno racconterà a queste creature che in una piccola località nel nord dell’Etiopia c’era un «angelo nero» che si prendeva cura di loro. Nessuno farà il nome di Tekle, quell’omone dalle mani enormi e dal cuore immenso che si prendeva cura dei bambini soli, facendoli giocare, vestendoli e fornendo loro il cibo per diventare grandi.
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