Quella finestra illuminata
Sempre mi sono ispirato, parlando con i fratelli in carcere, al brano che racconta la fuga miracolosa di Pietro dal carcere, riportato in Atti 12,1-19. È un testo che anticipa la Pasqua, in cui si sente tutta la forza del Cristo Risorto. In quel brano degli Atti c’è, però, un particolare che mi ha sempre incuriosito, lo stesso che è stato raccolto dai cappellani delle carceri di Abruzzo e Molise, che si sono incontrati nel mese di febbraio. Sacerdoti che vivono esperienze di grande densità umana, poiché spesso ascoltano anche detenuti «difficili», come i fratelli soggetti al regime del 41 bis. Eppure proprio da questi cappellani sono venute alcune intuizioni di vivace speranza. Essi hanno seguito il cammino di Pietro che si ritrova di colpo, nel cuore della notte, in mezzo a una strada buia e non sa dove andare. Proprio in quel momento egli è però attratto da una finestra illuminata, da una casa dove si prega, di notte, sotto la guida di una donna, Maria, madre di Marco.
In quella casa è radunata tutta la comunità di Gerusalemme in preghiera incessante per lui, per Pietro. Egli bussa alla porta di quella dimora e viene accolto e, con semplicità, narra la sua liberazione, frutto della fede sua e della preghiera della comunità. I cappellani in quella finestrella accesa hanno visto il cuore di comunità cristiane che sanno tenere accesa la speranza anche nella vita dura dei carcerati. Quella finestra è il simbolo dell’accoglienza nelle giornate di permesso, quando i detenuti vengono ospitati da famiglie serene e coraggiose, che così creano luoghi di accoglienza e non di giudizio. Carcere e società sono strettamente legati. Per questo oggi un cappellano del carcere deve lavorare soprattutto «fuori», per creare nella società un clima di misericordia, non di esclusione. Questo è il compito suo più difficile, ma anche più prezioso: cambiare la mentalità della gente, anche nei confronti di quanti sono soggetti al 41 bis, regime ora al centro di cocenti polemiche.
È chiaro che tale istituto va mantenuto, per evitare i contatti di potere. Ma non va vissuto nello stile del «carcere duro», con inutili vessazioni e privazioni. Sempre ci deve essere un clima di redenzione, come scrive la Costituzione al numero 27, articolo veramente profetico! Anche per quanti sono soggetti al 41 bis ci sia allora quella finestrella sempre accesa, nel cuore della notte, nella quale si esprime la forza della nostra preghiera, in un’intercessione solidale e incessante per la pace, il perdono e il lavoro.
Occorre anche saper guardare lontano, per cogliere l’impatto che questo provvedimento restrittivo ha nel cuore dei giovani. A riguardo voglio raccontarvi un fatto avvenuto anni fa in una scuola media di San Luca, in Calabria. Un giorno mi imbattei in un ragazzo di terza media, che stava prendendo a calci le macchine delle professoresse. «Perché lo fai?» gli chiesi. E lui: «Sono stato a trovare il mio papà, rinchiuso al 41 bis, ma non ho potuto abbracciarlo. Ci tenevo tanto, perché so quanto soffre! È sempre più solo. Ma non ho potuto farlo, a causa dei vetri di separazione. Lo Stato mi ha impedito di abbracciarlo. E io mi vendico sfogando la rabbia sulle macchine degli insegnanti, pagati dallo Stato». «Che ne sarà delle nuove generazioni?» mi chiesi allora, davanti a questa scena così triste. Non è di certo questo il cuore della nostra Costituzione! E tanto meno del Vangelo, dove è scritto: «Ero carcerato e siete venuti a trovarmi». Perciò abbiamo sempre più bisogno di quella finestrella illuminata, cioè di cuori ospitali e aperti verso i migranti, i carcerati e i poveri. Il dolore allora non diventerà vendetta ma redenzione, proprio per la preghiera incessante di noi tutti.
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