Se solo foste umani
Silvia Sanna è una scrittrice e una maestra, ma per crederci ci vuole un po’, perché a guardarla non ha nulla che ispiri l’autorevolezza dei ruoli. I capelli corti, il viso sbarazzino, il sorriso senza freni e i jeans (ma più spesso la tuta da ginnastica) annunciano il carattere di una giovane donna che non si affida volentieri alle apparenze.
«Ma non ti puoi comprare qualcosa da maestra?», le hanno detto le amiche l’ultima volta che ha chiesto in prestito una giacca elegante per presentarsi ai colloqui con i genitori. Il fatto è che se davvero esiste «qualcosa da maestra», per Silvia quel qualcosa non è una giacca. Più probabilmente è lo sguardo, quello suo sui bambini, ma anche quello dei bambini su di lei.
Qualunque maestra che abbia scelto di esserlo per passione conosce quell’intreccio d’occhi e d’anima, ma per Silvia l’attitudine a coltivare la relazione con i piccoli ha declinazioni molto più ampie di quelle consentite dai confini pur amati del suo lavoro alla scuola Monte Rosello di Sassari, l’istituto comprensivo del non facile rione omonimo, costruito nel periodo fascista e rimasto periferico anche nell’atmosfera sociale.
Silvia ci lavora, ma non solo. In Sardegna è nota per i suoi libri e per il suo impegno nel volontariato, nello sport e nella cooperazione internazionale, tre ambiti che spesso ha trovato il modo di combinare. È accaduto tre anni fa in Palestina, quando l’associazione «Ponti non muri», di cui fa parte, ha consegnato ai bambini palestinesi fondi e attrezzature sportive per la squadra di atletica di Betlemme.
«Sono andata in Terra Santa da non credente e ho capito che credere nelle persone a prescindere dalla loro fede di appartenenza è la mia religione. Ho mangiato e dormito a casa di musulmani palestinesi, bevuto il tè con i cristiani, cullato bambini arabi. Sento di appartenere a due terre».
A provarlo c’è l’adozione a distanza di una bambina palestinese di nome Zeqra, un amore a prima vista nato durante una delle permanenze in Palestina e diventato forte anche col mare di mezzo. Silvia, del resto, è sarda e il mare per i sardi non è mai stato un ostacolo: in tanti lo hanno varcato e continuano a farlo da emigrati in cerca di lavoro.
Oggi però la Sardegna vive anche il fenomeno inverso: da meta di partenza è diventata approdo per quanti dall’altra sponda del Mediterraneo arrivano in difficoltà in cerca di rifugio e di una vita migliore. Il più delle volte chi arriva cerca subito di andare verso il Nord Europa; talvolta, però, può scegliere di restarci, nonostante le difficoltà del caso, e in casi come questi lo sguardo di persone come Silvia – quel «qualcosa da maestra» – può fare la differenza.
A Sassari Silvia è coinvolta direttamente nell’esperienza di Casa Somalia, una realtà d’accoglienza nata dai legami spontanei con dodici ragazzi somali tra i 18 e i 25 anni arrivati in Sardegna in fuga dalla guerra un anno fa.
Abbandonati a loro stessi dopo l’ottenimento dello status di rifugiati, vivevano per strada in condizioni di indigenza, fino a quando una decina di abitanti del quartiere di Monte Rosello ha deciso di provare a dare loro un tetto provvisorio, aiutati dal gestore del centro di accoglienza e dal parroco.
Nella quotidianità della vicinanza reciproca i legami si sono stretti e così è nata un’associazione per provare a fare qualcosa di più. Favorire le relazioni e il rapporto tra i ragazzi della scuola e i giovanissimi rifugiati si è rivelato subito la carta vincente, perché ogni nemico resta tale solo finché non ha un nome, un volto e una voce che può intrecciarsi alla tua.
Cose come giocare insieme, mangiare in comune, fare attività sportive e serate musicali sono qualcosa di più dell’integrazione: rappresentano la costruzione di una nuova appartenenza che comprenda le differenze di tutti, senza gerarchie. A qualcuno naturalmente questa realtà non piace.
A Natale Casa Somalia ha subìto attentati e atti di vandalismo da parte di ignoti del quartiere e i gruppi politici neofascisti lavorano casa per casa per creare consenso giocando sulla paura dello straniero. Il lavoro di persone come Silvia è doppio: da un lato, proteggere e cercare di superare le fragilità di chi è venuto qui cercando aiuto, dall’altro cercare di insegnare alle persone del posto a non temere, favorendo conoscenza e scambio.
A volte sale la voglia di arrendersi, perché non sempre ci si sente abbastanza forti. Dopo il tentativo di incendio che ha segnato il Natale scorso contro il luogo dove dormono i rifugiati, Silvia ha scritto pubblicamente queste parole, accompagnate da fotografie:
«Vi vorrei raccontare con alcuni scatti cosa vi perdete ogni giorno, cari xenofobi, razzisti e violenti.
Vi perdete la bellezza del vedere bambini felici, alcuni nati nella vostra città e altri che hanno attraversato il deserto a piedi e il mare su una barca per trovarsi davanti la vostra ignoranza e la vostra cattiveria. Vi perdete i loro sorrisi e i sorrisi dei “nostri” bambini, quando giocano insieme.
Vi perdete la gioia di vedere bambini diciottenni, perché questo è chi non ha avuto infanzia, che giocano felicemente con la palla, il domino, i walkie-talkie, gli animaletti di plastica, la dama, il drago.
Vi perdete pezzi di vita che vi scorrono accanto senza togliervi nulla, ma che reputate comunque pericolosi. Se solo foste qua con noi. Se solo foste come i bambini, i vostri e i nostri, che giocano insieme senza fare né farsi domande. Se solo foste umani».
L’umanità ha il suo lato oscuro. Per questo servono le maestre.