Sogno o realtà?
Una brillante neurochirurga ungherese sulla quarantina, Márta, single, lascia il suo prestigioso incarico negli Usa, nel New Jersey, per tornare a Budapest. Motivi? Ha incontrato a un convegno di oncologia l’uomo della sua vita, János, neurochirurgo anch’egli, e si sono dati appuntamento sul verde e romantico ponte di ferro (il Ponte della Libertà) che separa Buda da Pest. Ma lui non c’è, e, quando si incontrano, non la riconosce. Come mai? Si chiede lo spettatore. János, ricercatore barbuto e corpulento, noto in città anche per il suo fine orecchio musicale, forse non vuole dar corso all’attrazione sentimentale. O magari János non può ricordare Márta, perché – chissà – ha amnesie e memorie confuse. Oppure è lei che si è sognata tutto e che potrebbe soffrire di sintomi neurologici o psichiatrici. In effetti, Márta ha colloqui con un giovane psicologo per un presunto disturbo di personalità. Dunque, non sappiamo che cosa sia successo. Ma qualcosa è successo. E così non restiamo indifferenti. Márta sviene, dopo il rifiuto da parte del collega. Lei è così bella, algida eppure dolce, solitaria, taciturna, materna e moralmente integra, che noi entriamo volentieri nei suoi pensieri, grazie all’aiuto della regista, e facciamo il tifo per lei. Perché una storia d’amore dovrebbe sempre finire male?
A parte lo sviluppo della trama (adatta a un pubblico adulto) del film Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo (Ungheria, 2020), che lasciamo scoprire ai nostri lettori, la regista Lili Horváth (38enne ungherese, che aveva esordito nel 2015 con The Wednesday Child e che qui è anche sceneggiatrice), dirige un romanzo filmico di formazione lento e implacabile, che taglia i particolari, li isola e li sutura come su un tavolo operatorio. L’inquadratura è spiazzante: vediamo Márta nelle reazioni facciali di János; vediamo lui nel sorriso che illumina gli occhi azzurri di lei. Lei ci parla, parlando in seduta al suo psicologo, che ci restituisce le sue interpretazioni: forse Márta vuole profittare dei suoi disturbi per fuggire dalla situazione e diluire le proprie responsabilità.
A caccia di ipotesi
La narrazione ricorda i drammi morali di Kieslowski (Il Decalogo), i thriller di Hitchcock e le inventive biografie di Truffaut. Noi spettatori, suggestionati dagli indizi della sceneggiatura (il comune amore dei protagonisti per la musica, la nostalgia di una casa, lutti non elaborati, la passione letteraria, la consapevolezza dei propri sbagli, la sobrietà ascetica dell’abitare), ci facciamo un’ipotesi dietro l’altra, come dei novelli detective o dei piccoli medici diagnosti, e sprofondiamo nella complicata etica degli affetti, gli affetti che si nascondono dietro visi attoniti e dentro cuori d’inverno, sensualità esplosive, inverosimili assenze. Márta dice no a chi ingenuamente la corteggia e rifiuta di ricevere bustarelle per il suo lavoro. János dice no alla carriera clinica e preferisce scrivere il libro della sua vita. Márta, d’altro canto, dice sì al suo scrostato ospedale di Budapest e non rifiuta interventi chirurgici rischiosi. János impara a dire sì a chi reclama la sua attenzione e accetta di ospitare un’amante inattesa.
Tra una struggente poesia di Sylvia Plath («Sono convinta di averti inventato») e un appassionato canto viennese, siamo invitati a interpretare il nostro desiderio. È assurdo e impossibile negarlo, quel desiderio, se ci batte nelle tempie. Ma non ci è nemmeno consentito di soddisfarlo subito, perché esso è come un enigma che apre a una vita diversa e a responsabilità nuove, che ci trasformano faticosamente. Senza desideri, l’etica muore soffocata. Senza una parola che esprima, comunichi e condivida le pulsioni, siamo noi a finire schiacciati.
Il cinema è un chirurgo che opera così vicino ai nostri centri del linguaggio, che può farci male, se non procede per gradi. Le visioni rivelano la nostra identità, ma possono essere accecanti. Per questo il Dio d’Israele non si poteva guardare in faccia, ma solo ascoltare nel fuoco e nella brezza, togliendosi i sandali e avendo timore di lui. Solo allora possiamo dire «Sì, per sempre, lo voglio, starò con te». La storia di innamoramento è come un trasloco improbabile, che solleva all’ultimo piano, su una fune cigolante, un’enorme cassa acustica, delicata proprio per la sua massa imponente. L’amore ha bisogno di noi. Persino Dio ha bisogno di noi. Vuole essere cercato, custodito, curato. È dietro alla porta. Ma lui non l’aprirà mai, contro o senza di noi. E noi, d’altro canto, non conosciamo il suo nome, il nome impronunciabile, il nome che ci disorienta come il lunghissimo titolo di una novella: Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo. Il titolo è ironicamente debordante e vago: la vita ti offre poche certezze; intanto preparati, altrimenti resterai solo, per sempre.
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