In dialogo con la città e con il mondo

Cuore e testa, umiltà e gratitudine, innovazione e ricerca nel solco della tradizione. Sono questi gli ingredienti per la Scala del futuro. Parola di Fortunato Ortombina, dal febbraio scorso nuovo sovrintendente e direttore artistico del teatro milanese.
07 Aprile 2025 | di

«Era il 1964, avevo 4 anni, quando la tv entrò in casa mia. E un pomeriggio, per la prima volta, vidi David Oistrakh e Isaac Stern che eseguivano le Sonate per violino di Beethoven. Quella fu la prima musica della mia vita. Ne rimasi folgorato». A raccontare come nacque la sua passione per le note è Fortunato Ortombina, musicista (è diplomato in trombone), musicologo, tra i maggiori esperti di Giuseppe Verdi, il quale, dal 17 febbraio scorso, dopo vent’anni trascorsi alla Fenice di Venezia e varie esperienze in alcuni tra i maggiori teatri d’opera italiani (dal Regio di Parma al Regio di Torino, al San Carlo di Napoli) è approdato nel «tempio della lirica», la Scala di Milano, nel doppio ruolo di sovrintendente e direttore artistico. 

Msa. Maestro Ortombina, che cosa significa per lei prendere le redini del più importante teatro d’opera del mondo?

Ortombina. Significa innanzitutto una grande responsabilità, non solo nei confronti del teatro e della sua storia, ma anche di tutta la città, della quale il teatro d’opera è l’espressione più intima, perché è una realtà coltivata nei secoli. E se questo è vero per ogni teatro d’opera, a Milano lo è in modo particolare, perché Milano è la Scala e la Scala è Milano. Quindi è una grande e profonda responsabilità, che ha prima di tutto un carattere artistico e organizzativo, ma che coinvolge anche il rapporto con la comunità che vive e respira intorno al teatro. 

Che volto avrà la «sua» Scala? 

Sono il primo sovrintendente nella storia scaligera che sa già quando finirà il suo tempo alla Scala – il 17 febbraio del 2030 –, perché il mio mandato non potrà essere rinnovato, a causa di una recente norma di legge che stabilisce in 70 anni l’età massima per i sovrintendenti. Questo non significa, però, che io abbia intenzione di vivacchiare attendendo la pensione, bensì, proprio perché ho dinanzi a me un tempo breve senza proroga possibile, che tutto quello che si farà andrà visto nella lunga prospettiva della vita del teatro, nel mondo e per la città. Vorrei che la Scala riassumesse quei caratteri, anche di internazionalità, che ha sempre avuto nel tempo e mi piacerebbe molto caratterizzare questo periodo con una particolare attenzione alla ricerca. La ricerca nei repertori, affiancando autori che magari alla Scala non si sono mai o poco rappresentati, con altri di riferimento, vere e proprie colonne, come Verdi, Wagner, Mozart e poi un’alternanza, per il repertorio italiano, di Puccini, Donizetti, Bellini, Rossini. Compositori che rappresenteranno i motori principali di questo immenso bastimento che varcherà gli oceani del mondo. Poi, una ricerca intesa in relazione alla città, perché il teatro deve essere capace di dialogare con le varie entità che la compongono: le altre istituzioni, le università, il conservatorio, le comunità all’interno della polis, le diverse confessioni religiose, gli ordini professionali... Milano è una realtà molto composita e bisogna essere in grado di dialogare con tutti. La ricerca forse più importante, però, è quella di una generazione nuova di artisti. 

Ci sarà spazio quindi anche per i giovani nella Scala da lei guidata? La sua direzione artistica veneziana è stata in parte caratterizzata proprio dalla capacità di scoprire nuovi talenti... 

Alla Scala devono esserci tutti i più grandi artisti del mondo, su questo non si discute. Ma ci deve essere anche lo spazio per far crescere dei giovani vicino ai grandissimi già affermati, compiendo un’ennesima ricerca, quella scritturale. Ci vuole sempre un ingrediente che possa vellicare il senso di curiosità del pubblico, che viene nel teatro più importante del mondo, con i più grandi del mondo, ma vuole trovarvi anche la freschezza, vuole che si individuino nuove frontiere e questo vale per i cantanti, vale per i direttori, per i registi e naturalmente anche per gli autori. 

Che cosa rappresenta un teatro, e un teatro d’opera in particolare, per un territorio? E che cos’è la Scala per Milano?

Il teatro d’opera è una sorta di tempio, così come è un tempio il Duomo, come sono templi le varie chiese di una città o l’Aula magna dell’Università… Luoghi che riassumono il Dna di una società. La gente non viene alla Scala solo per assistere a una rappresentazione, ma anche per sentirsi parte di una comunità. Come accade per una chiesa: le persone vi si recano motivate in primo luogo dalla fede, certo, ma hanno anche il desiderio di fare comunità, di incontrare altre persone che conoscono e con cui condividono una parte della vita. Allo stesso modo la grande casa d’opera in una città è catalizzatrice di tante tensioni positive: c’è la passione per la musica, per il melodramma, ma ci sono anche altri ingredienti che hanno a che fare con l’essere e sentirsi città, al di là dell’andare ad ascoltare un’opera di Verdi o di Puccini. E di questo bisogna tenere conto. 

In molti avevano dato la lirica già per defunta e invece pare che negli ultimi anni i giovani stiano facendo ritorno in massa all’opera… 

Le giovani generazioni sono molto più aperte, più curiose e più già naturalmente dotate di quell’attitudine che serve per frequentare il teatro d’opera, di quel che si creda. Si tratta di andare loro incontro, e non solo col prezzo del biglietto o con eventi speciali a loro riservati, bensì aiutandoli a comprendere una realtà molto semplice: gli autori, questi grandi profeti che si chiamano Verdi, Mozart, Rossini, Wagner, Bellini... sono qui per raccontarci una storia. Questo è l’approccio giusto per chi viene all’opera ed è questo che la rende eterna, perché l’umanità ha da sempre e avrà per sempre bisogno di narrazioni. In fondo Verdi, non Manzoni, rappresenta in Italia la vera letteratura nazionale, essendo per il nostro Paese ciò che Dostoevskij è per la Russia o Victor Hugo per la Francia. Pertanto, chiunque ipotizzi la fine del tempo del teatro d’opera, secondo me non ha capito assolutamente niente dell’umanità. Le opere saranno per sempre giovani e fresche, perché connettono ciascun uomo e ciascuna donna con il proprio animo.

Musica e sacro spesso parlano lo stesso linguaggio. Ci sarà spazio nella «sua» Scala per una maggior valorizzazione della musica sacra? 

La musica sacra italiana purtroppo ha tenuto, nel tempo, in repertorio pochi brani. Per l’Ottocento, ad esempio, si parla solo del Requiem di Verdi o dello Stabat Mater di Rossini. Rispetto alla sua domanda, però, ribadisco quanto ho detto prima: credo che il teatro d’opera, da un lato, e la Chiesa locale, dall’altro, debbano dialogare, e il teatro deve cercare di incrociare il proprio calendario con quello liturgico, tenendo conto delle specificità della città. 

Nel 2026, ricorrerà l’80esimo anniversario della ricostruzione della Scala bombardata, inaugurata all’epoca da Arturo Toscanini. E nel 2028, i 250 anni dalla sua apertura, avvenuta nel 1778. Come verranno solennizzati questi eventi?

Questi sono due momenti importantissimi. Ma già quest’anno c’è una ricorrenza speciale: il 25 aprile sono infatti 80 anni esatti dalla Liberazione dell’Italia, una data legata strettamente alla città, perché coincide con la ritirata dei tedeschi e dei soldati della Repubblica di Salò proprio da Milano. Poi, certo, nel 2026 ci saranno gli 80 anni del concerto di Toscanini (11 maggio) per la ricostruzione, un gesto simbolico all’epoca, che servì alla politica del tempo per delineare le priorità nella ricostruzione e per dimostrare che la coscienza dell’essere italiani passava proprio attraverso la cultura e la lirica in particolare. Ma nel prossimo triennio ci saranno anche altri anniversari significativi per Milano, come i 150 anni del «Corriere della Sera» (2026) e gli 80 dalla fondazione del Piccolo Teatro (2027). Poi, nel 2028, la Scala compirà 250 anni… Date importanti, per le quali stiamo pensando a un grande progetto che dovrà permeare tutta la città, coinvolgendo ovviamente anche la Regione. 

Il canto lirico è stato iscritto a dicembre 2023 nella lista Unesco del Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Che cosa significa questo per un Paese come il nostro in cui, anche rispetto ad altre realtà europee, la musica, il teatro, la cultura in genere, sono spesso fanalini di coda? 

Il canto lirico, patrimonio dell’umanità lo è sempre stato, quindi direi che tale riconoscimento è un po’ tardivo, arriva con quasi 400 anni di ritardo... Basti pensare alla forza dirompente che ha avuto il teatro lirico quando è nato, nel 1600, o a quella esercitata su un sistema industriale come quello di Venezia, dove, nel 1637, si aprì il primo teatro pubblico a pagamento del mondo. Però, meglio tardi che mai. Spero che questo serva come memento per chi deve identificare le priorità per un Paese o per una consociazione di Paesi come l’Unione europea. Quindi lo vedo soprattuttto come un monito per chi decide ad altri livelli, più che per il mondo della musica. 

Per restare in tema di fanalini: è nota la sua passione per la bicicletta (sulla sua due ruote ha scalato addirittura due volte il Pordoi…). Che cosa insegna il ciclismo a un uomo di musica e a un manager come lei? 

Tutto lo sport è portatore di un insegnamento. Il ciclismo è da sempre una mia grande passione, anche se io non l’ho mai inteso in senso agonistico. Per me è innanzitutto un’esperienza di libertà: in sella alla mia bicicletta, reggendo il manubrio, con le ruote ben gonfiate che mi fanno sentire il suono dell’asfalto e della catena che gira, sento che mi viene rivelata la bellezza, la bellezza dell’aria nelle orecchie, del panorama, della terra su cui si muovono le ruote. Ma la bicicletta fa sentire molto da vicino anche il rapporto fisico tra te, la terra e l’universo. E non solo. Salire sul Pordoi richiede di saper gestire le energie, richiede una preparazione seria, una disciplina. Bisogna anche conoscersi molto bene, sapersi ascoltare. E, soprattutto, c’è una grande lezione da apprendere: a quella meta ci arrivi con la preparazione fisica, con le tue gambe e con il tuo cuore che devono saper resistere alla fatica, certo, ma ciò che ti fa arrivare fin lassù, all’immensa grandezza di una natura meravigliosa, è soprattutto la testa. Nel teatro d’opera avviene lo stesso: servono testa e cuore, insieme, per giungere a tagliare alcuni traguardi che ti portano all’immensità della bellezza dell’arte. Poi, certo, anche il percorso in se stesso è importante, perché come in bicicletta ogni angolatura, ogni tornante hanno qualcosa da insegnarti, così avviene in teatro. Per raggiungere ogni tipo di bellezza servono fatica, disciplina, allenamento, consapevolezza delle proprie risorse, servono cuore e testa, servono occhi per vedere e serve soprattutto l’umiltà di voler imparare. Senza mai dimenticare lo sforzo immane di chi ha costruito per te quelle strade che ti consentono di salire fin lassù, la fatica di un’umanità che ci ha preceduti e a cui dobbiamo essere grati.

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Data di aggiornamento: 07 Aprile 2025
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