Testimoni nel Cammino
È il 24 novembre 2016. In una camera dell’ospedale di Castelfranco Veneto (TV) s’incrociano le strade di due donne segnate dal dolore e dalla malattia. Da un lato della stanza riposa Roberta, 40 anni, reduce da una mastectomia; dall’altro Emanuela stringe la mano alla madre Rosetta, operata anche lei per un cancro al seno. Basta uno sguardo, un sorriso... e le due donne iniziano a chiacchierare sempre più fitto. Roberta, moglie e madre di una bimba di 8 anni, racconta la scoperta della malattia, la paura di non farcela, il rapporto discontinuo con la fede e il progressivo riavvicinamento a un Santo «amico».
Nella testa di Emanuela (reduce da una folgorante esperienza di volontariato in Colombia) si accende una lampadina. Il Santo di cui parla Roberta è lo stesso che l’ha guidata per tre volte da Camposampiero (PD) alla Basilica padovana nel cosiddetto «Cammino ultimo di sant’Antonio»: ventiquattro chilometri di pura gioia. Ora tocca a Emanuela raccontare. Man mano che la donna ripercorre a parole quella straordinaria esperienza di pellegrinaggio, la sua «vicina» s’illumina. La speranza è contagiosa, si sa. Così, quando, due giorni dopo, arrivano le sospirate dimissioni, le due amiche si salutano con una promessa: «Faremo il Cammino di sant’Antonio insieme!».
Il futuro, però, è ancora molto incerto. Dopo il rientro a Montebelluna, dove vive, Roberta affronta il calvario del post-intervento: dodici sedute di chemio più trenta di radioterapia. Nell’arco dei due anni successivi i capelli e le forze la abbandonano più volte. Quella promessa però mai, quasi se la fosse scolpita nella mente. Nel frattempo, i messaggi che si scambia una volta al mese con Emanuela la aiutano a tener duro e a non cedere allo sconforto. «Tema dei nostri sms era sempre Antonio – ricorda oggi Roberta –. Gli eravamo grate di averci fatto incontrare. Sapevamo che il Santo stava cercando di dirci qualcosa. Dovevamo solo metterci in suo ascolto».
Le amiche intuiscono, dunque, l’esistenza di un disegno molto più grande di loro. La missione cui sono chiamate si fa ogni giorno più evidente: «Testimoniare – sintetizza Roberta –. Trasformare il nostro dolore in forza e fede da trasmettere agli altri. Perché la sofferenza può insegnare a essere grati. È un segno di quella croce che tutti prima o poi dobbiamo portare. Per questo ho deciso di forarmi le orecchie e infilare una croce sul lobo sinistro (sinistro era anche il seno malato, ndr)». Nella vita di Roberta nulla è scontato. Ogni giorno una sfida, ogni notte un passo avanti verso la fine del tunnel. Sostenuta dall’affetto dei propri cari – in primis la sorella gemella – e rincuorata dalla lettera piena di speranza che un frate della Basilica (informato da Emanuela) le invia, la donna completa le terapie e si prepara a mantenere la sua promessa.
Un sogno che si avvera
Domenica 2 settembre 2018, a due anni dal primo incontro in ospedale, Emanuela e Roberta si ritrovano a Camposampiero e, assieme ad altre venti persone tra parenti e amici, si avviano verso il Santuario dell’Arcella, per poi concludere il viaggio, sette ore più tardi, nella Basilica antoniana. Il «cammino della testimonianza», come lo ribattezzano loro, si compie tra le lacrime e la felicità. «È stato un modo per ringraziare coloro che mi sono stati vicini in questi ultimi tempi – precisa Roberta –. E per ricordare a tutti quanto è importante non aver paura di tendere la mano al momento del bisogno. Ancora oggi mi stupisco di quante persone inaspettate hanno risposto alla mia chiamata!».
Raggiunto il sagrato della Basilica, Emanuela e Roberta si abbracciano. Poi entrano nel Santuario tenendosi per mano. Sanno che il loro viaggio non è finito... «Questa nostra esperienza deve andare oltre, arrivare alle orecchie e al cuore di molti» chiosa Roberta. Non a caso le amiche stanno già progettando un cammino-bis per accontentare le numerose richieste di chi, scoraggiato dalle previsioni meteo di domenica 2 settembre, aveva dato forfait. Tra i progetti in cantiere c’è anche quello di raccogliere i messaggi scambiati via smartphone in una specie di «diario di bordo».
«Chi vive quel che ho vissuto io desidera spesso rimuovere il passato – conclude Roberta –. Io però non voglio dimenticare nulla, tanto meno la forza che ho saputo scovare dentro di me. In questo senso, la malattia è stata un percorso di crescita, anzi, di rinascita». Un viaggio estremo e doloroso, certo. Ma anche un traguardo. «Il dolore permette di dare senso alla vita e di compiere scelte che altrimenti non faresti mai». Rinnegarlo, dunque, sarebbe come ammettere di aver sofferto invano.