Voglia d'Infinito
L'infinito non è un problema filosofico o letterario. È innanzitutto umano, esistenziale. Lui, Leopardi, dice: «Dove trova piacere l’anima aborre che sia finito».
Se non provassimo dispiacere quando finisce una cosa che ci piace (una vita amata, una bella esperienza, una cosa buona) non avremmo il problema dell’infinito. Che dunque riguarda e urge da dentro la nostra stessa natura umana. È un problema che identifica la nostra natura più di ogni altra identità che ci cuciamo addosso, spesso seguendo mode e pensiero dominante.
Leopardi aggiunge: «Non solo la facoltà conoscitiva o quella di amare ma neanche la immaginativa è capace di concepire qualcosa di infinito, ma solo dell’indefinito e di concepire indefinitamente». Festeggiare L’Infinito è dunque festeggiare qualcosa che ci riguarda tutti. Che tra l’altro unisce prodigiosamente parti opposte d’Italia.
«C’è un concetto che corrompe e altera tutti gli altri», scrive J.L.Borges, in Otras inquisiciones. E aggiunge: «Non parlo del Male, il cui limitato impero è l’Etica, parlo dell’Infinito». Del resto Ungaretti, riflettendo su Dostoevskij, vedeva nell’arte presentarsi «il mistero e di pari passo la misura».
Fare un testo misurato, quasi geometrico «finitissimo» per indicare una esperienza possibile dell’Infinito è stata una strana scommessa di Leopardi. Beh, ci è riuscito. Ha compiuto un cambio di direzione al senso di questa parola portandola dalla cultura greca e latina – dove apeiron è ritenuto segno distintivo del tremendo e dell’informe e quindi del negativo – alla cultura biblica e cristiana, grazie alla quale nella parola «infinitamente» prevale oggi un senso positivo. Ma vedremo..,
Il testo del ventenne che mormora «Infinito» è uno spazio dove avvengono molte cose. Soprattutto si genera un luogo «non altrove dalla poesia».
Forse, l’uomo che vive «altrove dalla poesia» è solo un uomo finito. Quello che anche i matematici chiamano «l’infinito attuale» è impossibile «altrove della poesia», cioè altrove da un luogo ove il linguaggio tende, bruciando in sé anche la contraddizione delle antinomie, alla propria verità. Del resto, la poesia ci occorre proprio perché non usciamo mai dalla parola. E dunque la poesia è il punto in cui comprendiamo la verità della parola. Non siamo mai «essere senza parola».
Non si può ridurre una poesia a effetto linguistico, ma non si può nemmeno sottovalutare la vita poetica della lingua, quei suoi prodigi che cantano qualcosa «pari alla vita», avrebbe detto Mario Luzi, con moti che passano dall’udito al cuore, dal suono al senso e viceversa, e dalla mente al brivido. Non a caso Leopardi intitola «canti» le sue poesie. Nella lingua e nei suoi movimenti accadono cose analoghe a quanto accade nel profondo dell’uomo vivente. Una poesia non è mai riducibile ai reperti che il filologo isola sul suo tavolo anatomico.
Leopardi è molto interessato a questo «potere» delle parole poetiche. Giuseppe Ungaretti giustamente annota che egli anche per questo non è un classico né un romantico. E richiama gli articoli di Ludovico di Breme (1818), capitali per Leopardi il quale li commenta finendo con questa affermazione: «Le regole nascono quando manca chi pensi». Siamo l’anno prima de L’Infinito.
Se non si afferma un legame tra uomo e punto di fuga, tra vita e infinito, diceva don Luigi Giussani, l’esistenza umana viene definita solo dal potere, in tutte le sue forme. E la vita diventa una galera.
Per Ungaretti, in Leopardi l’idea che la mente possa conoscere solo la «indefinitezza» fu un «ripiego». E si sofferma su una testimonianza che commuove. Nei pensieri dell’agosto del ’23, Blaise Pascal appariva al Leopardi al tempo dei Pensées, ovvero verso la fine della vita, al termine di una esistenza «il cui genio sommo aveva rapidamente consumato il corpo, le stesse facoltà mentali, lo stesso genio» («come stava succedendo a lui», nota Ungaretti). E conclude Leopardi: «Quasi pazzo per la forza della fantasia». Al che Ungaretti annota micidiale: «Indefinitezza? chi, dei due, pazzo?».
«E come il vento / odo stormir tra queste piante», canta Leopardi ne L’Infinito. E appena il vento… Succede qualcosa. Che cosa sia tale vento tra le fronde è l’enigma centrale e meraviglioso di questa poesia. Ma seguiamo le parole.
Lo stormire del vento prima non era in scena, appare ora. «E come...». C’è un passaggio. Nel presente del mirare, fingere e spaurare ora invece c’è udire, stormire... Lo stormire del vento è, da un lato, evento plausibile e reale, un magico concerto naturale come a volte ci viene donato, grazie alle onde, al vento, agli alberi o a chissà che prodigiosa cavità di tronco o di roccia. Dall’altro è un emblema. Entra in scena qualcos’altro, inimmaginabile, come inimmaginabile è l’Infinito. Avviene un suo segno. Il vento tra le fronde è un emblema, un richiamo che al giovane poeta, che portava l’alveare dei libri sacri e profani in cuore, non sfuggiva.
In una pagina del capitolo 19 del Libro dei Re, si narra del profeta Elia che attende un segno da Dio nella caverna. E il profeta si accorge che il segno della presenza di Dio non è nella tempesta o nel fuoco, ma in una lieve brezza… Era uno dei passi più commentati della Bibbia e anche dei più popolari.
I rimandi biblici nell’opera del poeta sono stati finalmente e a lungo studiati, analizzati e elencati. Questo ancora pare sfuggire ai più, trattandosi forse di un rimando lieve, pur se decisivo, e in un testo del limitare di gioventù. Gioventù che vede Leopardi comporre opere di diretto argomento biblico. Questo riferimento poi è così lievemente posato in un testo apparentemente leggiadro (un Idillio) e appare prima dei più radicali, sommersi e dolenti rimandi della maturità ai libri di Giobbe e Salomone, con cui egli dice di stare, di contro a ogni ottimismo anche di marca spiritualista. Qui, sul colle, siamo invece ancora al limitare di giovinezza. E la Bibbia è stata per Leopardi il «libro della giovinezza» sua e, insieme a Omero, della giovinezza del mondo. Poi quel modo «naturale» di vedere il mondo è caduto – se non nei bambini e negli ingenui – e si è affermato il modo «sentimentale» e del puro e arido vero. Si badi che nell’appunto in prosa che prelude la composizione de L’Infinito, la parola «siepe» in prima versione è data – e non sono certo altre che la Bibbia le fonti possibili per tale nome –.
La formazione di taglio gesuitico ricevuta in casa, gli esercizi, le riscritture, come la traduzione in sette lingue di un Salmo, il 46, inno alla forza del Signore come rifugio, e il progetto di opere come L’Inno ai patriarchi, di tema biblico, hanno certo lasciato una profonda impronta.
Subito, infatti, udito il vento, accadono altre cose...
E dallo spazio e dal silenzio e dal fingere che spaura si passa al «comparare», cioè al conoscere attraverso i segni e a un’altra dimensione, più propriamente, e drammaticamente, umana: il tempo. Tutto il tempo, che è il modo con cui l’uomo abita il mondo. E in questo infinito, sperimentabile umanamente grazie ai suoi segni, e dicibile in un luogo non altrove dalla poesia, «naufragar m’è dolce».
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