Volti di Chiesa
Marzo 2020. L’Italia intera è in lockdown per il covid. Come tutti, anche don Andrea Conocchia, parroco della Beata Vergine Maria Immacolata di Torvajanica, località sul litorale laziale a un’ora circa (traffico permettendo) di auto da Roma, è chiuso in casa. Ma, una mattina di metà marzo, qualcosa di imprevisto lo obbliga a uscire: «Nel sagrato della chiesa c’erano decine di persone, tutte in fila indiana, ordinate e silenziose» racconta. Così va a chiedere loro che cosa ci facciano lì. «A casa non abbiamo più nulla da mangiare e non abbiamo i soldi per fare la spesa: puoi aiutarci?» rispondono. Il sacerdote racimola tutto il cibo che trova, e lo distribuisce. Però non basta per tutti e così quelli che non ricevono quasi nulla vengono invitati a tornare il giorno dopo. E il giorno successivo, quasi come in una miracolosa «moltiplicazione» di evangelica memoria, il cibo basta a sfamare le persone in attesa. A fare il «miracolo», la Caritas, alcune aziende del territorio e associazioni di volontariato cui don Andrea si è, nel frattempo, rivolto. Non solo. Questo parroco di periferia ha bussato pure in Vaticano, attraverso don Corrado (il cardinale Konrad Krajewski, l’elemosiniere del Papa), che subito si adopera perché degli alimenti giungano a Torvajanica. Quella moltiplicazione miracolosa andrà avanti per tutto il periodo del confinamento, garantendo sostentamento e vicinanza a molte persone in gravi difficoltà.
E già solo fin qui questa storia di solidarietà varrebbe la pena di essere raccontata: una comunità intera che si mobilita per aiutare i più fragili è un segno di speranza per tutti. Ma c’è dell’altro. Tra quanti avevano bussato alla sua porta in quel primo giorno (quasi tutti lavoratori stagionali o giostrai), infatti, don Andrea aveva notato anche una donna sulla cinquantina, che lo aveva colpito per l’atteggiamento di ritrosia, quasi avesse paura a chiedere... «Mi sono avvicinato – spiega il sacerdote – e lei quasi subito mi ha confessato di essere una transgender e che si guadagnava da vivere prostituendosi, quasi a dire che non avrebbe meritato alcun aiuto dalla Chiesa. “Ma ho fame” mi disse, chiedendo se potevo aiutarla». Quel giorno anche lei ricevette la sua parte di cibo e, insieme, l’invito a tornare nei giorni successivi. «Il giorno dopo tornò in compagnia di un’amica – prosegue il parroco –. E poi, nei giorni seguenti, ne arrivarono molte altre. Avevano bussato ad altre porte, ma nessuna si era aperta. Erano affamate, praticamente senza un euro e sole: credo di non aver fatto nulla di straordinario, ho semplicemente cercato di aiutare chi si trovava nel bisogno, senza chiedere chi fosse o che cosa avesse fatto. In quel momento contava solo l’essere umano che avevo di fronte. Un figlio di Dio, come tutti».
Già. Facile dirlo, più difficile comportarsi di conseguenza. Perché queste donne sono davvero le ultime degli ultimi. Messe ai margini, colpite da un doppio stigma: quello che riguarda la loro identità e quello di doversi vendere per vivere. Sfruttate, spesso picchiate e rapinate, violentate, costrette a vivere nella paura costante di essere uccise. «È stata questa consapevolezza che mi ha portato ad aprire loro le porte della parrocchia» insiste don Andrea. Sì, perché dopo il cibo, la Chiesa, sempre tramite l’elemosiniere del Papa, le ha aiutate a pagare l’affitto o qualche bolletta, così come nel post covid è successo a migliaia di altre persone in difficoltà economica. «Quando, passata l’emergenza, sono tornate per ringraziare, mi hanno detto che avrebbero voluto tanto esprimere la loro riconoscenza anche al Papa. E così le ho invitate a scrivere una lettera che mi sono impegnato di far arrivare nelle mani di don Corrado. Solo che ne ho parlato prima con una suora che qui in zona segue la pastorale dei giostrai, suor Geneviève Jeanningros, vecchia amica del Pontefice, la quale mi ha detto: “E se chiedessimo di essere ricevuti da papa Francesco? Così potrebbero loro stesse consegnargli la lettera”. Abbiamo chiesto, dunque, e, con nostro immenso stupore, nel giro di pochissimo sono arrivati gli inviti per partecipare a un’udienza generale del mercoledì».
È iniziato in questo modo quello strano e continuo pellegrinaggio che ancora oggi conduce quasi ogni settimana dal Papa prostitute, persone transgender, membri cattolici della più ampia comunità internazionale Lgbtq+, sempre accompagnati da don Andrea. «Non sono certo andato a cercarmi questo particolare ambito di pastorale – chiosa il sacerdote –. La vita mi ci ha condotto e il Vangelo mi ha insegnato che bisogna sempre essere disponibili e attenti ad accogliere i segni di Dio nella nostra storia personale. Così, mi sono trovato involontariamente a essere un tramite tra una Chiesa aperta a ogni figlio di Dio e questi stessi figli che spesso nessuno vuole, guidato solo dalla parola del Vangelo che mi ricorda come “i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt, 21,31)».
Umanità dolente
Ho incontrato alcune di queste donne nella parrocchia di don Andrea. Hanno volti indimenticabili, segnati da una sofferenza profonda, ma anche da un’incredibile forza interiore e dalla indomita speranza in un futuro migliore. I loro sorrisi puliti nonostante tutto il male attraversato, la fede indistruttibile che pure non esprimono per paura del giudizio, l’amore per la vita anche se per loro è stata una via dolorosa, restituiscono il profumo di una umanità buona.
Si chiamano Claudia, Nadia, Minerva, Marcella, Florencia… Vengono dall’Argentina, qualcuna dal Perù, qualcun’altra dalla Colombia o dall’Uruguay. Le loro storie sono uniche, eppure un po’ si assomigliano tutte. La scoperta di vivere in un corpo che le imprigionava, avvenuta quasi sempre nell’infanzia, l’emarginazione subita per il loro essere «diverse», il rifiuto delle famiglie, le botte, la violenza, la strada come unico modo per sopravvivere o come risultato di una fiducia mal riposta in chi aveva invece promesso di aiutarle. Qualcuna era anche inserita attivamente nella parrocchia di origine. Ma quel loro essere donne chiuse in un corpo di uomo paradossalmente le ha condannate a vivere nel costante rifiuto. Eppure per loro «la vita è bella» come dice Minerva, dal volto dolcissimo. «Io spero di poter trovare un lavoro per potermi togliere dalla strada» dicono quasi tutte. Una speranza che Claudia, una di loro, è riuscita a vedere trasformata in realtà: «Una signora mi ha offerto un lavoro come donna delle pulizie nel suo locale – mi spiega –. Per me è stata come una seconda mamma che mi ha restituito alla vita. Prima ero alcolizzata, dovevo bere di continuo per potermi prostituire, sennò non ce la facevo. Ora non tocco più un goccio di alcol. Sono rinata».
Le guardo negli occhi, queste donne. Le ascolto, ridiamo e piangiamo insieme. Ci salutiamo con un abbraccio, e vedo in quegli occhi lo stupore e la commozione di chi riceve una carezza disinteressata forse per la prima volta da anni. Prima di accomiatarmi mi faccio però raccontare se sono state contente di aver potuto incontrare il Papa. Sorridono tutte a sentire quel nome. E una di loro mi confida, con gli occhi spalancati dallo stupore: «Ma lo sai dove ci mette il Papa quando andiamo a trovarlo in piazza San Pietro? Ci mette nel posto in cui durante le grandi celebrazioni stanno re e regine. Perché per lui noi siamo importanti…!». E allora capisci che basterebbe davvero poco. Basterebbe per una volta non sentirci dalla parte dei «giusti», ma persone imperfette in cammino come tutti. Ciascuno con la propria storia. Grati per non aver dovuto affrontare le prove difficili incontrate da queste donne. Sì, siamo tutti figli e figlie di Dio. È ora di vivere davvero così.
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