A bordo della nave salva migranti

Mar Mediterraneo. La cronaca dei soccorsi ai migranti operati dalla nave «Aquarius» di Sos Méditerranée e Medici senza frontiere. Le voci e le speranze di chi scappa dalla Libia direzione Italia ed Europa.
23 Maggio 2018 | di

«Una barca di legno è alla deriva. Ci sono una trentina di migranti a bordo. Dovete intervenire». La comunicazione radio è un breve sibilo metallico. Squarcia il silenzio, sul ponte di comando della nave Aquarius. Fuori dagli oblò, il Mediterraneo è agitato, a circa venti miglia dalla Libia. «Il messaggio giunge da Roma, dal Centro italiano di coordinamento del soccorso marittimo» spiega Klaus Merkle, coordinatore dei soccorsi per Sos Méditerranée. L’organizzazione non governativa (ong) europea ha noleggiato la nave assieme a Medici senza frontiere (Msf). È tra le poche rimaste a soccorrere chi dall’Africa tenta la via del mare per raggiungere l’Italia e l’Europa. «Dobbiamo entrare in azione» dice Klaus, indicando su una carta nautica la piattaforma petrolifera Sabratha. Sul posto è già arrivato il rimorchiatore italiano Asso Ventiquattro. Ha prelevato i migranti dall’imbarcazione di fortuna su cui erano partiti dalla Libia. Sono ventisette e tra di loro ci sono due donne. Somali, per la maggior parte. Poi, camerunensi, senegalesi, sudanesi, nigeriani.

Il team di Sos Méditerranée li recupera, uno dopo l’altro, e li trasferisce a bordo della Aquarius, con i gommoni veloci. Salgono prima le donne. Si reggono in piedi a fatica per la stanchezza e per l’ipotermia. I medici di Medici senza frontiere le aiutano a togliersi i giubbotti di salvataggio e le accompagnano nella clinica di bordo. Nel frattempo, vengono distribuiti vestiti asciutti, coperte, merendine e succhi di frutta. «16 anni, dalla Somalia, è un minorenne» scandisce il mediatore culturale tunisino Moez Ben Salem, mentre i ragazzi gli sfilano davanti. I somali sono tutti molto giovani. Nel gruppo ci sono sei minorenni non accompagnati. Kadir viene da Mogadiscio e ha un taglio vistoso sotto il mento. «Sono inciampato mentre stavamo partendo – racconta – e sono caduto col volto sul legno della barca». Mohamed viene anche lui dalla capitale somala. Ha poco più di 20 anni, ma ha già una moglie e una figlia che lo aspettano in Francia. Indossa un’elegante giacca nera più grande di due taglie rispetto alla sua. Al di sotto si intravede una jallabia bianca, il vestito tradizionale arabo. «Siamo partiti all’una di notte – spiega –, eravamo dalle parti di Sabratha. Molti di noi erano reclusi in una prigione, vicino a Zuara. Alcuni ci hanno trascorso mesi».

Su una parete di metallo, in uno dei corridoi della Aquarius, è appesa una cartina dell’Africa. «Io vengo da qui» dice un ragazzo, indicando un paese del Camerun e spalancando un sorriso. Si chiama Lionel, come Messi, il campione del Barcellona. Lui, però, tifa per la Juventus e vuole andare a Napoli, dove lo aspetta sua sorella. Ha 24 anni ed è riuscito a partire, dopo aver pagato gli Asma Boys, i trafficanti ribelli della Libia occidentale. «Sono nato nel Sud del Paese – racconta, alternando il francese all’inglese – ma sono cresciuto vicino al confine con la Nigeria. Lì non c’è lavoro e ci sono problemi tra anglofoni e francofoni. La scorsa estate ho deciso di andarmene. Forse ce l’ho fatta». Il dito scorre sulla carta geografica. Prima il confine con la Nigeria a sud-est. Poi, l’attraversamento verso il Niger, da Sokoto. «Non sono passato da Agadez per andare direttamente in Libia – spiega Lionel –. Lì ci sono più controlli adesso. Ho preferito passare da Tahua, per poi raggiungere Tamanrasset, in Algeria. Il viaggio nel deserto è stato molto duro. Dopo un giorno l’acqua era finita. Ne ho trascorsi altri due quasi senza bere». Infine, l’ingresso in Libia, da ovest. E il carcere, in un centro di detenzione vicino Zawiya. «Ci sono rimasto quasi un mese – testimonia Lionel –, ci picchiavano. Da mangiare ci davano solo un po’ di pane, del formaggio e della pasta, per tutto il giorno. Nel cibo c’era del sonnifero per farci dormire. Devi pagare fino a 250 euro per poter uscire».

La notte trascorre tesa. La Aquarius riaccende i motori e torna indietro, tagliando onde di un paio di metri. Destinazione Sicilia. I ragazzi sono esausti. Alcuni sono provati dal mal di mare. Dormono uno accanto all’altro, al riparo dello shelter, la sala coperta. L’alba li sveglia per la prima volta fuori da un incubo durato mesi. Divorano la colazione a base di panini, barrette energetiche e tè caldo. «Quella è l’Italia?». Stanley, nigeriano, indica una banda verde che si allunga tra il mare e la bruma, all’orizzonte. Il porto di Pozzallo prende forma. Si intravedono le banchine, le strade. «Sì, siamo quasi arrivati, dovete prepararvi», risponde Luca Salerno, il capo missione di Medici senza frontiere. I volti tesi si sciolgono in un sorriso collettivo. «Boza!» gridano in coro. Una parola coniata dai migranti subsahariani, mescolando vari idiomi locali. Quattro lettere che significano trionfo. Un motto da urlare una sola volta, quando finalmente l’obiettivo è stato raggiunto. «Grazie a Dio siamo in Italia – dice Seku, poco più di 20 anni, giunto dal Senegal –. La sofferenza finalmente è finita. Questa terra è benedetta. Voglio imparare la vostra lingua e trovare un lavoro. D’ora in poi voglio vivere tranquillo, solo questo».

«È la fine di un incubo durato quasi un anno e mezzo» dice Nour, che viene dalla Somalia. Ha il volto di chi deve ancora iniziare a radersi e il braccialetto color giallo che identifica chi è minorenne. Lui di anni ne ha appena 16. Da Mogadiscio è scappato nel 2015. Ha varcato il Mar Rosso verso lo Yemen, quindi per Port Sudan. Poi il deserto. E la Libia. «Sono stato in tre prigioni diverse – racconta –, a Bani Walid, a Tripoli e a Zawiya. Mi hanno picchiato e derubato. Tutti i soldi che avevo se li sono presi i carcerieri». Sulla banchina sono già pronti gli operatori della Croce Rossa e il personale del ministero della Salute. Salgono a bordo, visitano e censiscono i passeggeri. La nave è tecnicamente in quarantena. La bandiera gialla viene ammainata dopo l’ok del medico del ministero. Gli altri si mettono in fila indiana e percorrono la passerella che li separa dalla terra ferma. Seku si inginocchia e bacia il suolo. «Ma dove ci portano ora?» si domanda. La risposta e un letto vero lo attendono poche centinaia di metri più in là, nell’hotspot di Pozzallo.

 

Il reportage completo è leggibile nel numero di maggio del Messaggero di sant’Antonio e nella corrispondente versione digitale della rivista.

Data di aggiornamento: 23 Maggio 2018
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