I cattolici: ieri, oggi e domani

In un'Italia sempre più divisa e individualista, il mondo cattolico, con la sua vasta ramificazione di diocesi e parrocchie, pare ormai l'unico collante rimasto su cui fare affidamento.
05 Settembre 2017 | di

Chi sono io per sentirmi autorizzato a parlare di cose che conosco poco e male? Forse è solo l’età, e l’aver frequentato nel corso di una vita ormai lunga diversi «preti di frontiera» e cattolici molto esigenti e poco conformisti, a giustificare l’espressione delle mie preoccupazioni sui cattolici, badando a dire che non sono un credente (o, quantomeno, come ho risposto una volta a chi me lo chiedeva, sono uno che crede di non credere). Tanti anni fa rimasi folgorato dalla definizione di sé che dava Ignazio Silone, a cui ho avuto la fortuna di star vicino per qualche mese intorno al 1956: «Cristiano senza chiesa e socialista senza partito». Mi ci riconosco da allora, e oggi più che mai anche se di socialismo non parla più nessuno (ma di cristianesimo per fortuna sì).

Eppure, per chi come me ha avuto un rapporto forte con le pratiche sociali e pedagogiche per più di sessant’anni, è stato ed è oggi a maggior ragione impossibile non confrontarsi con tanti degni cattolici, e tanti preti non comuni. Il primo di cui ho ricordo è l’antifascista don Luigi Rughi che aveva fondato in Umbria leghe mezzadrili «bianche» e fu per questo esiliato in una poverissima parrocchia di montagna dove i poverissimi contadini erano miei parenti. (Lo ricordo il primo maggio del 1945, primo della Liberazione, guidare con un fazzoletto rosso al collo un corteo dove, settenne, ero tenuto per mano da mio padre). Ci sono poi stati don Zeno di Nomadelfia, i collaboratori di don Mazzolari, i serviti Turoldo e De Piaz, grandi amici, don Gallo a Genova, don Facibeni a Firenze «padre» di tanti orfani eccetera, e in tempi recenti i preti venuti da Capodarco, don Luigi Di Liegro a Roma, don Santoro a Firenze e don Ciotti a Torino prima che diventasse un super-prete. Eccetera, perché è impossibile per chi si occupa del «sociale» non avere avuto a che fare e non avere a che fare con i cattolici. Constatando anzi che, nonostante i divi e divetti che ahimé compaiono a volte anche nelle loro file, nessuno – come invece accadeva nei gruppi e partiti della sinistra – ti chiedeva o ti chiede se credi o non credi, trovando nel «ben fare» il giusto confronto e il giusto cemento.

Questo preambolo, questo «metter le mani avanti», mi serve a giustificare una convinzione e una critica. In breve: in questa nostra Italia, la sinistra è morta (per suicidio, e le responsabilità maggiori le ha da sempre la prepotenza centralista e dottrinaria dell’ex Partito comunista, con tutte le sue filiazioni anche attuali), la destra postfascista conta per fortuna poco mentre contano molto le spinte populiste continuamente ricorrenti, peggio che ambigue ma per ora dentro il grande calderone di un «centro» dove ferve la lotta tra gruppi e corporazioni e tra piccole e grandi consorterie palesi e non, ma nessuno opera davvero in nome dello Stato e degli interessi veri della collettività, non di quelli para-televisivi e manipolati. Il filo che lega tra loro i vari «territori» della penisola, più importanti delle regioni e province e dello stesso Stato, è fragilissimo. Ed è solo il mondo cattolico che mi sembra ancora far da collante, anche con la ramificazione vastissima delle diocesi e delle parrocchie. Ma se alcuni cattolici se ne rendono conto perfettamente i più non sanno considerare tutto questo che in una logica di potere e non di responsabilità. 

Data di aggiornamento: 07 Settembre 2017
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