L’ora della riconciliazione
Meris Corghi aveva quasi le lacrime agli occhi quando, domenica 15 aprile, è salita all’ambone nella Pieve di San Valentino, presso Castellarano (Reggio Emilia): «Siamo tutti fratelli e nella guerra tutti perdiamo – ha detto –. Io qui oggi, figlia, non sono venuta tanto a chiedere perdono per mio padre, ma a chiedere perdono per l’odio che scatena la guerra. Perdoniamoci oggi, facciamolo qui». Meris ha voluto fortemente questo abbraccio di riconciliazione, ha pregato a lungo, perché a lungo ha vissuto con una spina nel cuore. Il 13 aprile 1945, 73 anni fa (lei non era ancora nata), suo padre Giuseppe Corghi, partigiano delle brigate comuniste, freddò con due colpi di pistola Rolando Rivi, seminarista di appena 14 anni. «Io sono di Gesù», ripeteva il ragazzo, che venne torturato per due giorni: non ebbero pietà per lui. Rolando fu ucciso in spregio alla fede, in odium fidei. Nel 2013 papa Francesco lo ha proclamato beato, facendone il simbolo glorioso di un terribile periodo di dolore che ha ferito il nostro Paese.
Vittime innocenti
La guerra finì nell’aprile 1945, ma non per tutti. In varie zone d’Italia la luce della nuova alba di libertà venne oscurata dall’ombra di illegalità e di vendette sommarie compiute da ex partigiani comunisti, in nome di un’ideologia che si voleva affermare come forza rivoluzionaria. Una sanguinosa resa dei conti che durò mesi e mesi, addirittura per tutto il 1946 e anche più avanti. Secondo una ricerca, furono 1.325 i «fascisti» uccisi dopo il 25 aprile a Milano, altrettanti a Torino, e un rapporto della prefettura di Bologna del luglio 1948 stimava che fossero circa 700 le persone «soppresse o prelevate» dopo la liberazione. Non tutti, però, erano stati in camicia nera: dei sette fratelli Govoni di Pieve di Cento (Bologna), seviziati, uccisi e gettati in una fossa comune l’11 maggio 1945, soltanto due avevano aderito alla Rsi, e Umberto Montanari, medico condotto di Piumazzo (Modena), ferito a morte il 21 maggio 1946, aveva addirittura collaborato con i partigiani cattolici.
La violenza fu feroce soprattutto in quello che venne chiamato il «triangolo della morte» che nelle prime inchieste identificava l’area compresa tra Castelfranco Emilia, Piumazzo e Manzolino, nel Modenese, dove si contarono 44 morti in 15 mesi, tra l’aprile ’45 e il giugno ’46: la definizione si è poi estesa a comprendere tutta la zona tra Castelfranco, Mirandola e Carpi, ovvero la Bassa modenese, così come, in generale, il territorio ben più ampio tra Bologna, Modena e Reggio Emilia.
«Alcune frange del movimento partigiano comunista pensavano che la liberazione dai fascisti fosse solo la premessa per stabilire un altro ordine sociale, e quindi proseguivano la lotta: volevano eliminare i nemici che avrebbero impedito l’affermazione del nuovo sistema», osserva lo storico emiliano Giovanni Fantozzi, autore di accurate ricerche su quel periodo, come Vittime dell’odio (Europrom), che nel 1990 fece scalpore, e Il volto del nemico (Artestampa).In questo tragico affresco, la Chiesa ha patito un sacrificio durissimo. Secondo il Martirologio del Clero italiano, pubblicato dall’Azione Cattolica nel 1963 e ripreso dal giornalista Roberto Beretta nella sua Storia dei preti uccisi dai partigiani (Piemme), in Italia furono 108 i sacerdoti che persero la vita nei terribili regolamenti di conti: 53 caddero durante la Resistenza, 14 appena prima del 25 aprile e 41 dopo, anche nel 1946 o nel ’47. E tuttavia «i religiosi il cui passato poteva essere ricondotto a un documentato legame con la dittatura si contano su una sola mano, al massimo due», fa notare Beretta.
L’onore della verità
In Emilia Romagna i preti morti in questa «giustizia insurrezionale» furono 16: «Erano tra i bersagli privilegiati dai partigiani comunisti che inseguivano il sogno della rivoluzione – aggiunge Fantozzi –. E si andava oltre il pur profondo odio religioso: il sacerdote era ritenuto una figura fondamentale dell’ordine politico che si voleva abbattere».
«Con la guerra i parroci furono punti di riferimento importanti per le comunità e, dopo il ’43, in pieno caos istituzionale, diventarono di fatto l’unica autorità riconosciuta – sottolinea Claudio Silingardi, direttore generale dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, rete degli Istituti per la storia della Resistenza –. Assunsero un ruolo specifico più forte, ma finirono anche nel mirino di molti».
Don Giuseppe Preci, parroco di Montalto di Montese, sull’Appennino modenese, venne ucciso la notte del 24 maggio 1945: lo mandarono a chiamare per portare i sacramenti a un moribondo, e lo freddarono lungo la strada. La notte successiva, otto uomini armati arrivarono alla canonica di Riolo di Castelfranco Emilia, una borgata tra le province di Modena e Bologna. Don Giuseppe Tarozzi, il parroco, venne trascinato fuori a forza e portato via, sotto gli occhi atterriti della perpetua: non tornò più al paese e il suo corpo non fu mai trovato. A don Giovanni Guicciardi, parroco di Mocogno sull’Appennino modenese, detto «il prete di tutti», spararono alla nuca nella notte del 10 giugno 1945. Don Luigi Lenzini, battagliero parroco di Crocette di Pavullo, sui monti del Modenese, venne raggiunto da un commando di almeno quattro persone nella notte del 21 luglio 1945: provò a rifugiarsi in chiesa e sul campanile, ma venne trascinato via e seviziato. Il suo cadavere fu rinvenuto in una vigna, una settimana più tardi. Per lui la diocesi di Modena ha avviato il processo di beatificazione. Don Francesco Venturelli, parroco di Fossoli di Carpi, che era stato assistente spirituale degli internati del campo di concentramento da cui partivano i treni per Auschwitz, fu trovato ucciso il 14 gennaio 1946, pochi giorni dopo che un articolo su «La Voce del Partigiano» lo aveva accusato di aiutare i fascisti. Don Umberto Pessina, parroco di Correggio, colpito a morte il 18 giugno 1946 (quando già era nata la Repubblica italiana), fu tra le ultime vittime dell’odio, ma del suo caso si è parlato anche in anni più recenti: nel 1990 Otello Montanari, deputato e dirigente Pci, lanciò l’invito «Chi sa, parli!» che portò a riaprire il processo, riabilitando i partigiani che erano stati condannati (come Germano Nicolini, il «comandante Diavolo») e facendo scoprire i veri colpevoli. Ed è stato come tagliare un velo di nebbia che fino ad allora aveva avvolto il «sangue dei vinti» (come Giampaolo Pansa ha intitolato il suo contrastato libro, edito nel 2003 da Sperling & Kupfer): «Per molto tempo questo lato oscuro del dopoguerra è stato quasi un argomento tabù», ricorda Fantozzi.
«I morti sono veramente morti soltanto quando vengono dimenticati», scrisse don Guicciardi pochi mesi prima del tragico agguato. Nessuno di questi sacerdoti è finito nell’oblio. Tutti ci parlano ancora e, come rimarca Beretta, «è un dovere restituire alla loro memoria, per quanto possibile, l'onore della verità».
Un ulteriore approfondimento sul beato Rolando Rivi è pubblicato nel numero di luglio-agosto del Messaggero di sant’Antonio e nella corrispondente versione digitale.