Diritto di vivere
Un diciassettenne testimone di Geova, Adam Henry, malato di leucemia, rifiuta per motivi religiosi (in accordo con i genitori) una trasfusione di sangue salva-vita. I medici si appellano al magistrato, una donna 50enne, in servizio a Londra presso l’Alta Corte, Fiona Maye, la quale decide insolitamente di recarsi al letto del malato per approfondire il caso. Tornata in tribunale, Fiona emette la sentenza: trasfondere! La vita di un minorenne è bene primario! Il ragazzo, clinicamente migliorato, la ringrazierà e vorrà incontrarla, addirittura frequentarne la famiglia. Una richiesta eccessiva per una giurista austera e scrupolosa e per una donna senza figli, che sta vivendo una delicata crisi coniugale, proprio per aver sacrificato tutto alla professione. La malattia di Adam purtroppo ritornerà…
La regia sceglie un cast sicuro, un’immagine ben confezionata, una ripresa distesa, una trasposizione fedele, una fotografia elegante, per accostare due vicende morali, quella del paziente e quella della giudice. In entrambi i casi si tratta di una ricerca d’identità. Il ragazzo si chiede, sotto l’incombente minaccia della malattia, che cosa egli pensi veramente della vita, del futuro suo e dei suoi genitori e si domanda quale compito gli assegni il Dio biblico, in egli cui crede. Il magistrato interroga la propria storia professionale e matrimoniale e perciò vuol cogliere in carne e ossa il significato del rifiuto di cure, espresso da un ragazzo maturo e sensibile.
Questa duplice esplorazione interiore beneficia della rivelazione esplosiva legata all’incontro in reparto tra i due protagonisti. Come una madre, Fiona empatizza con Adam, ne condivide le paure e mostra di comprenderne – per quanto le è possibile – gli interessi. Come un figlio, Adam esprime un affetto riconoscente e, nel contempo, rivendica un legittimo diritto di autodeterminazione, che trascende le strette ragioni cliniche («il sangue non è solo un simbolo né una sostanza biologica; è la vita di una persona, non si può inquinarla né mescolarla con quella di altri»). Tra i due si genera un’amicizia imprevista, che va oltre il semplice caso giudiziario.
«Qui si applica la legge e non la morale» sentenzia Fiona. La frase è perentoria, ma la donna intuisce che nessuna legge è priva di radici etiche e che nessun codice può essere interpretato senza una personale sensibilità verso il bene, senza un’immaginazione empatica, senza una consapevolezza premurosa delle ragioni umane di un gesto. Applicare il diritto non è come dedurre la soluzione da un teorema geometrico. Allo stesso modo, trasfondere sangue non è semplicemente correggere uno squilibrio dell’organismo. Instaurare una terapia è provvedere alla cura di una persona, è tradurre un impegno assistenziale in gesti proporzionati e consoni all’esistenza di un sofferente, che ha abitudini, stili e credenze originali e irripetibili.
Sangue, parole, affetti sono le cifre di questa vicenda, il cui tema è stato molto dibattuto nei manuali di morale medica. Sul piano etico l’età anagrafica conta poco. Il consenso o il rifiuto di un malato sono validi se sono espressi in libertà, previa un’informazione adeguata (e debitamente compresa) e in forza della capacità decisionale del soggetto, una capacità che gli anglosassoni chiamano competence. Sul piano teologico, del resto, la vita fisica e la salute del corpo sono beni fondamentali, ma non supremi né assoluti. Sacra è la persona. Inviolabile è la sua decisione di servire una causa degna, senza riserve: «il servizio di Dio e dei fratelli» secondo un’antica espressione.
Il cinema ha nelle proprie corde una possibilità speciale di interrogare l’assoluto. La quotidianità della vita reale è incrinata da conflitti tra valori, che si concentrano in eventi decisivi, in dilemmi inesorabili. Il cinema garantisce una trasfusione d’immagini previo consenso. Il consenso di chi voglia credere, ancora una volta, al valore di un mondo, che si prende cura di noi e dei nostri sogni.
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