Benedetta Bianchi Porro, una vita benedetta!
Fin dall’inizio, da quando l’ho conosciuta – attraverso i suoi scritti e poi attraverso il rapporto con i suoi familiari –, Benedetta Bianchi Porro, oggi finalmente beata (il 14 settembre 2019, ndr) mi è parsa una giovane donna del tutto «normale»! Capita spesso, infatti, leggendo gli scritti e le biografie dei santi, di imbattersi in supereroi talmente perfetti fin dalla nascita che ti senti subito fuori gioco. Invece con Benedetta non è così! Basta leggere i suoi diari per incontrare la sua normalità: una vita cadenzata da fatti ordinari, da confidenze ordinarie… Una vita talmente ordinaria che talvolta pare noiosa! Ma la cosa bella che scopre chi si affianca al suo cammino di vita, è che Benedetta ha accolto la sua esistenza, i suoi sentimenti, la sua ordinaria umanità ed è stata capace di offrirla al Signore, che al termine della vita riconoscerà come «suo Sposo», lasciandosi da Lui trasformare e trasfigurare. Una sorta di «esodo» dalla schiavitù di una vita concentrata su se stessa alla libertà di una vita riconosciuta come dono da accogliere e donare. Tutto è avvenuto con gradualità, delicatezza. E, a un certo punto, lei prende il volo e ti lascia lì, a bocca aperta, ma col desiderio di poter continuare a seguirla, perché non ti ha schiacciato con la bellezza della sua vita, ma ti ha aiutato a scoprire la bellezza di quello che a te è dato di vivere.
Benedetta nasce l’8 agosto 1936 a Dovadola (allora in provincia di Forlì), da Guido ed Elsa Gianmarchi, seconda di sei figli. Colpita da piccola dalla poliomielite, rimane con la gamba destra un po’ più corta, ma questo sarà solo l’inizio di altri problemi di salute che contraddistingueranno la sua via crucis che, nel suo rapporto con Dio, diventerà via lucis. Sarà comunque una bambina intelligente e vivace, schietta e amabile, come tante altre sue coetanee.
Le fonti per incontrare e conoscere Benedetta sono i diari dell’infanzia e le lettere, quest’ultime riflesso di una profonda esperienza mistica. Il diario è stato l’impegno che mamma Elsa affidò a tutti i figli perché «è un esercizio che insegna ad esprimersi correttamente. Inoltre impone uno studio introspettivo, un inquadramento del carattere, aiuta a raggiungere l’equilibrio» (C. Rebora, Oggi è la mia festa: Benedetta nel ricordo della madre, EDB).
Nel 1949, nel pieno dell’adolescenza, Benedetta scrive: «Stamattina ho messo per la prima volta il busto, che pianti! Mi pare ora quasi di constatare di più le cause della mia disgrazia: prima ero sempre spensierata e mi credevo quasi uguale agli altri ma ora… che precipizio ci separa, non potrò mai avere le gambe uguali e se non portavo il busto sarei diventata gobba! Ma nella vita voglio essere come gli altri… vorrei diventare qualcosa di grande… quanti sogni, quante lacrime, quanta nostalgia… povera Benedetta!» (diario, 9 luglio 1949). Passeranno pochi anni e comincerà ad avanzare anche la sordità: «Sono stata interrogata in latino: ogni tanto non capivo…! Ma cosa importa? Un giorno forse, non capirò più niente di quello che gli altri dicono, ma sentirò la voce dell’anima mia: questa è la vera guida che devo seguire» (diario, 13 febbraio 1953).
Saranno però le lettere, vera fonte che zampilla di meraviglia e di grazia, ad aiutarci a conoscere in modo più approfondito il progressivo cammino di crescita spirituale di Benedetta. In questo cammino si affiancheranno vari amici di Gioventù Studentesca, la sezione studentesca dell’Azione Cattolica, che in quegli anni aveva come assistente don Luigi Giussani. Leggiamo quanto scrisse all’amica Paola: «Il tuo incoraggiamento e le tue parole così serene e calme placano le tempeste del mio animo. Anch’io sono assetata di pace e desidero abbandonare le onde del mare per rifugiarmi nella quiete del porto. Ma la mia barca è fragile, le mie vele sono squarciate dal fulmine, i remi spezzati. Vorrei poter raggiungere l’equilibrio… che insomma val la pena di vivere qualunque vita come pensi tu» (A Paola, 26 gennaio 1953).
Benedetta, per descrivere il suo stato d’animo, non può che utilizzare il linguaggio umano e rifarsi a immagini della sua vita quotidiana, trasformandole fino a farne un «simbolo spirituale». Da qualche tempo vive a Sirmione sul Garda, dove il padre è ingegnere presso lo stabilimento termale. Conosce quindi il lago di Garda, la sua calma, le sue onde, ma anche il tempo burrascoso di questo lago, dove giungono le varie correnti provenienti dai monti. Chissà quante volte avrà visto i pescatori impegnati a rientrare in fretta per trovare la quiete del porto o agitati a sistemare le barche con le vele squarciate dal vento… E in quelle barche lei rivede la sua vita: una barca sballottata dal vento della fatica e delle difficoltà; con le vele della fiducia e della speranza squarciate dalla forza d’urto della malattia; ma pur sempre animata dal desiderio di condurre la barca della vita al porto, Dio.
Nel 1953 s’iscrive all’Università: prima a Fisica, per accondiscendere alla volontà del padre, e poi a Medicina: «Affrontai il nuovo studio con ardore, avevo sempre sognato di diventare un medico! Voglio vivere e lottare e sacrificarmi per tutti gli uomini» (diario, 26 gennaio 1954). E sarà proprio grazie agli studi intrapresi che Benedetta, da sola, riuscirà a diagnosticare la sua malattia: morbo di Recklinghausen. Il 27 giugno 1957 subisce il primo di una lunga serie di interventi alla testa, che racconterà lei stessa nelle lettere: a Maria Grazia, Nicoletta, Roberto, Paola… una fitta catena di amici con i quali si confiderà e si confronterà. Sarà questa rete di amici che l’aiuterà a prendere consapevolezza di quella fede che già è in lei, ma che forse aspettava proprio questi «incontri» per accendersi.
Scrive a Maria Grazia: «Io penso: che cosa meravigliosa è la vita (anche nei suoi aspetti più terribili); come la mia anima è piena di gratitudine e amore verso Dio per questo!» (A Maria Grazia, 19 aprile 1958). La malattia avanza inesorabilmente fino a paralizzarla, e a renderla sorda e cieca. Unico mezzo di comunicazione la mano destra, con la quale riceve ogni informazione, e con un filo di voce cerca di rispondere. A Nicoletta confida: «Capisco che prima di tutto devo accettarmi così come sono, miserella e mediocre e impotente, affidandomi a Lui. In Lui confido, in Lui vivo, a Lui innalzo il mio osanna» (9 ottobre 1960). E ancora: «Cara Nicoletta, le tue lettere mi danno sempre preziosi consigli sulla mia situazione spirituale: è il Signore che te le ispira… Sai, tempo fa cercavo Dio, ma mi agitavo come in un vestito troppo stretto, ora va liscio: “Se il Signore non fabbrica la casa…”» (20 giugno 1960).
Nel 1962 e nel 1963 andrà in pellegrinaggio a Lourdes. Al rientro dal primo pellegrinaggio scrive ancora a Nicoletta: «La Madonna mi ha fatto capire che “ci dobbiamo gloriare nella croce del Signore”. Sono andata a chiedere la guarigione, ma il criterio di Dio supera il nostro ed Egli agisce sempre per il nostro bene: desidero guarire per farmi suora. Ho fatto voto». Parole inequivocabili che dicono quanto la speranza della guarigione sia ancora custodita nel suo cuore. Non si rassegna alla malattia, lotta, spera e confida. «Mi sento sola, stanca, un po’ avvilita, senza molta pazienza. Non ho pace. Prega per me: sto attraversando un periodo difficile» (A Nicoletta, 2 agosto 1962). «Cara Maria Grazia, io sono come al solito: soffro molto, credo ogni volta di non farcela più, ma il Signore che fa grandi cose mi sostiene… e io mi trovo sempre ritta ai piedi della Croce» (A Maria Grazia, 24 settembre 1962).
La Grazia continua a operare in Benedetta, tanto che del secondo pellegrinaggio a Lourdes scrive: «Dalla città della Madonna si ritorna nuovamente capaci di lottare, con più dolcezza, pazienza e serenità. Ed io mi sono accorta, più che mai, della ricchezza del mio stato, e non desidero altro che conservarlo. È stato questo per me il miracolo di Lourdes, quest’anno» (A Paola, 5 luglio 1963). Ecco il miracolo! Incomprensibile agli occhi nostri, eppure Dio in Benedetta ha compiuto grandi cose. «Don Gabriele, io penso che il Signore vuole da lei, da me, da tutti noi che lo conosciamo che si diventi grandi, sempre più grandi, disposti fino in fondo a seguire la Sua volontà… Ecco perciò il motivo delle prove: vivere, lasciando che tutto il senso della nostra vita lo sappia e lo conosca Lui solo, e ce lo faccia a volte intravvedere, se così a Lui piace» (luglio 1963). «Don Gabriele, in questi ultimissimi giorni sono peggiorata di salute. Spero perciò che la “Chiamata” non si faccia attendere! Mi sento spiritualmente ancora in piedi nell’attesa di rispondere il “Presente” ad un Suo cenno! Le dirò, padre, che ho già sentito la Sua voce: la voce dello Sposo».
E pochi mesi dopo, il 23 gennaio 1964, Benedetta dirà il suo «Sì» allo Sposo.
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