San Leopoldo degli umili
«Se fosse possibile, dovremmo attraversare la terra come un’ombra che non lascia nessuna traccia». Sta racchiusa in questa manciata di parole la santità di san Leopoldo Mandić, «martire del confessionale», protagonista dell’ultimo film del regista Antonello Belluco.
L’uscita nelle sale, inizialmente programmata per il 3 aprile, è slittata, invece, a fine primavera a causa dell’emergenza sanitaria.
«Sulle mie spalle» (On my shoulders il titolo in inglese, vista l’anteprima in Sudafrica e la distribuzione in tutto il mondo) racconta di questo frate cappuccino, alto nemmeno 1 metro e 40 centimetri, di cui, ancora oggi, i più vecchi ricordano la figura curva, gli arti deformati dall’artrite e la mano sulla testa in segno di assoluzione.
Msa. Belluco, chi era davvero san Leopoldo?
Belluco. Nato in Dalmazia nel 1866, era il penultimo di 16 figli. Trascorse gran parte della sua vita a Padova, nel convento di Santa Croce (dal 1914 al 1942, anno in cui morì), sempre dentro alla sua celletta di pochi metri quadri, a confessare. Era definito di «manica larga» perché ritenuto troppo indulgente nei confronti dei peccatori, quasi uno sprovveduto. Invece, era un uomo sapiente, grande studioso di Sacre Scritture e di patristica.
Quasi trent’anni chiuso in confessionale, eppure era conosciuto ovunque.
Da lui arrivavano «non solo popolari, ma specialmente persone intellettuali e aristocratiche, professori e studenti dell’università e il clero» si legge negli Annali della Provincia veneta dei Cappuccini. Incontrò da vicino migliaia di persone. Tutti lo amavano, tutti andavano da lui a chiedere grazie, perché lo consideravano già santo, mentre lui, proprio santo non si pensava.
Perché questo grande attaccamento?
Era visto come il buon vicino di casa, l’uomo pronto ad ascoltarti, a caricarsi sulle proprie spalle i drammi, le preoccupazioni, gli errori e le fragilità degli uomini e delle donne che si rivolgevano a lui. «Esercitava un fascino straordinario per la grande cultura, il fine intuito e la santità della vita», scrivono sempre gli Annali.
Ci sono ancora testimoni che possono raccontarci di lui?
Fortunatamente abbiamo rintracciato alcune persone, oggi novantenni, che lo ricordano con grande emozione. Anche se all’epoca erano dei ragazzini di 10 o 12 anni, ricordano ancora oggi con nitidezza la confessione con lui. Rammentano, in particolare, la sua mano sulla testa, gli occhi svegli, attenti. Tutte queste testimonianze sono state raccolte in un documentario per la regia di Stefano Balbo.
Com’è il san Leopoldo firmato Belluco?
Il mio impegno non si è focalizzato nel raccontarne la vita e le opere, come invece avevo fatto con sant’Antonio, protagonista del mio film Antonio guerriero di Dio. Entrambi sono santi e sono legati alla città di Padova, ma tra loro sono molto diversi: l’uno un predicatore, l’altro un confessore.
Vale a dire?
Sant’Antonio ha una vita avventurosa, si muove molto, è una sorta di viaggiatore «estremo», lascia la sua terra, incontra tanta gente, predica a folle di fedeli. Padre Leopoldo, invece, è un uomo minuscolo, anche nella statura, la cui vita si tesse tutta dentro a un confessionale. Eppure da quel luogo angusto, che diventa il suo pulpito, anche questo piccolo frate arriverà a tante persone, nutrendole di speranza in tempi di buio e di smarrimento non così dissimili da quelli attuali.
Da Antonio a Leopoldo, lei è diventato uno «specialista» nel raccontare i santi. Che idea si è fatto della santità? Dove sta racchiusa?
Nella «disappropriazione del sé» di cui parla san Francesco, per il quale la santità sta nel farsi nulla per gli altri. Leopoldo, come Antonio, ha restituito al Signore ciò che ha ricevuto. Non la strada del potere, ma quella dell’umanità ostinata che conduce a santità.
Puoi leggere l'intervista integrale al regista Belluco e altri articoli sul «Messaggero di sant'Antonio», numero di aprile 2020, e nella versione digitale della rivista. Provala subito!