La fraternità crea l’uguaglianza
Che la diseguaglianza sia qualcosa di tremendamente serio e concreto lo sapevamo già da tempo (e ora quanto sta avvenendo con la pandemia sta rendendo tutto ancora più evidente), ce lo ricordava papa Francesco. Perché se è vero che siamo tutti sulla stessa barca, che, come in ogni grande epidemia, si ammala anche don Rodrigo insieme ai contadini delle campagne milanesi, è ancora più vero che trascorrere il lockdown in una villa con parco e piscina coperta è ben diverso dal trascorrerlo in un appartamento di 50 metri quadri in una periferia di una grande città. Per non parlare delle corsie preferenziali per i pazienti «solventi» delle cliniche private.
Ma perché la diseguaglianza è un male? E quali sono le radici e la ragioni di questo male economico e civile? La diseguaglianza è una malattia del rapporto, del legame sociale, quindi è una malattia della fraternità – come ha messo in luce il Papa nella sua ultima enciclica Fratelli tutti –. A noi non interessa soltanto quanto possediamo, ci interessa anche quanto possiedono coloro che vivono attorno a noi. E non solo per l’invidia sociale e per la componente agonistica dell’homo sapiens. C’è anche il sentimento della giustizia e dell’ingiustizia distributiva, che è il primo cemento di una società.
Noi riusciamo a stare in pace accanto ai nostri concittadini finché consideriamo che le differenze di reddito e di opportunità tra noi e loro, tra quelle dei nostri figli e i loro, sono considerate accettabili dal punto di vista etico. Perché il giorno in cui le considerassi troppo inique, o cambierei Paese o inizierei una ribellione (vedi i Gillet gialli, la cui proposta è essenzialmente legata alla diseguaglianza, non tanto alla povertà). La povertà di tutti è diversa della povertà di alcuni, magari molto pochi, circondati da ricchi.
Nella Bibbia la diseguaglianza appare già nel mito di Caino e Abele. Caino, ce lo dice la Genesi (cap. 4), era il primo figlio e quindi unico fino all’arrivo di Abele. Quando diventò fratello, e quindi non più unico, dovette gestire la non unicità delle risorse e degli affetti dei genitori e di Dio. Ma l’elemento che scatena l’omicidio è il trattamento diverso che lui riceve da Dio in rapporto a quello ricevuto da Abele – Dio accettava i doni di Abele ma non quelli di Caino –. Quindi i beni di Caino erano valutati meno di quello di Abele, il suo problema era un problema di percepita ingiustizia orizzontale, non del suo rapporto individuale con Dio. Era un rapporto sociale malato, la fraternità appunto.
Se non ci fosse il principio di fraternità, la diseguaglianza sarebbe percepita in modo diverso. È l’essere fratelli, e quindi uguali e diversi a un tempo, che crea le premesse per il principio di uguaglianza. Se non fossimo prima legati da un rapporto di fraternità, non ci sarebbe nessuna ragione per pretendere l’uguaglianza, perché non ci sarebbe nessuna base morale per protestare per trattamenti diversi che la vita, la sorte e i talenti ci riservano.
Noi protestiamo per la diseguaglianza, affermiamo quindi l’uguaglianza come un principio fondamentale della democrazia, perché ci riconosciamo prima legati da un rapporto, perché siamo dentro un legame di fraternità. Se fossimo totalmente slegati gli uni dagli altri non avremmo motivi per esigere l’uguaglianza. La diseguaglianza è naturale, l’uguaglianza è artificiale, non è il dato reale ma quello ideale, che invochiamo in nome del principio di fraternità. E dobbiamo farlo di più oggi, quando la diseguaglianza sta di nuovo crescendo nel mondo. L’abbiamo chiamata meritocrazia, e l’abbiamo lasciata crescere indisturbata, perché abbiamo dimenticato il principio di fraternità.
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