Diversi, non contrari
«Carissimi Edoardo e Chiara siamo una coppia sposata da 17 anni e abbiamo tre figli: la più grande di 15, un maschio di 13 e la piccolina di 6 anni. Il problema è che io e mio marito non ci troviamo in sintonia nella gestione dei nostri due figli più grandi. In particolare la nostra figlia maggiore mi preoccupa, per il suo poco impegno a scuola, perché si ribella continuamente a ogni minima regola le si metta e, spesso, si pone nei nostri confronti in modo provocatorio e di sfida. A causa di questo, frequentemente mi ritrovo a discutere con lei finendo per alzare la voce e mio marito, di solito, si limita a guardare oppure fa da moderatore tra me e lei. In questo modo mi sento messa sullo stesso piano di mia figlia, e non mi sento aiutata e supportata da lui. Questo mi fa molto soffrire e arrabbiare, perché vorrei sentirlo dalla mia parte, un alleato che mi aiuta a farle comprendere che non va bene questo suo atteggiamento così sfrontato e questo suo modo disimpegnato di affrontare la vita. Lui dice che non trova utili i modi così forti e aggressivi che ho con lei, che bisogna comprenderla e sorvolare su alcuni suoi comportamenti. Da parte mia condivido il suo principio ma spesso, la sua, mi sembra anche una posizione di comodo, che lascia fare a mia figlia tutto quello che vuole. Rispetto a tutto questo provo amarezza per il rapporto che ho costruito con i miei figli – anche con il secondo la relazione non è buona –, altre volte invece provo molta rabbia nei confronti di mio marito, perché mi sento lasciata sola».
Roberta
Carissima Roberta, comprendiamo bene le difficili prove a cui sei sottoposta dall’adolescenza dei tuoi figli. I nostri due ragazzi più grandi hanno quasi 14 e 12 anni e già da un po’ ci sembra di camminare su di un territorio minato. Quello che più ci colpisce della tua lettera è però il profondo sentimento di solitudine nel vivere la tua genitorialità. Ci colpisce perché, da quello che ci scrivi, tuo marito non è assente nella relazione con te o con tua figlia, ma è presente portando uno stile genitoriale che vuole essere più conciliante, più morbido, più comprensivo. Ci sembra, (ovviamente prendi questa cosa «con le pinze») che in realtà tu confonda diversità con lontananza. È come se tu ci dicessi che, per sentire tuo marito vicino, lui dovrebbe essere un tuo clone. Con questo non intendiamo dirti che il tuo atteggiamento verso tua figlia è sbagliato e il suo è giusto, e neppure il contrario. Osserviamo solo che il modo di fare di tuo marito è diverso, certo, ma non per questo opposto al tuo.
Cara Roberta, ci sembra di intravedere la possibilità di un’arricchente strada di integrazione tra voi due: forse, sì, lui dovrebbe imparare da te a essere un po’ più incisivo e diretto, ma forse anche tu potresti imparare da lui ad ascoltare prima di indicare una strada, a pesare i comportamenti di tua figlia secondo le situazioni e i contesti, a comprendere quale fatica, sofferenza, insicurezza si celano dietro al suo disimpegno e alla sua opposizione. Forse il cammino per voi due non è quello verso l’omologazione, ma quello verso l’integrazione. Una buona squadra non è fatta solo di difensori o solo di attaccanti, ci vogliono questi e quelli ed è utile che ogni tanto gli attaccanti tornino in difesa ad aiutare i loro compagni e ogni tanto i difensori si spingano verso l’attacco per cercare di vincere la partita.
Tua figlia, come ovviamente sai, non è un nemico da vincere con il supporto di tuo marito, ma una creatura disorientata da aiutare. Il nostro compito come genitori è quello di proteggere i nostri figli e di dare loro quegli strumenti che li aiutino a realizzarsi nella loro unicità. Per compiere questa missione genitoriale ci vogliono fermezza e amorevolezza. Con la sola fermezza si creerebbe un rapporto normativo, nel quale il figlio si sentirebbe amato solo se si conformasse ai dettami genitoriali. E di conseguenza finirebbe col pensare di essere sbagliato, inadeguato e quindi non amabile. Con la sola amorevolezza, d’altra parte, si rischierebbe di non dargli le coordinate necessarie per imparare a distinguere ciò che è utile nella vita da ciò che non lo è. E dunque lo lasceremmo in balìa delle sue pulsioni adolescenziali: amato, certo, ma disorientato in questa prateria senza confini che è la nostra società.
Amore e fermezza si devono sposare perciò: nessuno dei due è sbagliato ma da solo nessuno dei due è sufficiente. Se indichiamo ai nostri figli la strada maestra del bene, dell’impegno nelle cose che fanno, del decentramento «dal loro ombelico», del rispetto, dell’intelligente custodirsi dai pericoli e della capacità di sacrificarsi per qualcosa che vale, tutto questo non può essere mai a dispetto di un’accettazione incondizionata della loro persona. Hanno bisogno di sentirsi amati di un amore che non si basa su quello che fanno, ma su quello che sono. Semplicemente, tu, Roberta, sembri più portata alla fermezza; tuo marito, all’amorevolezza. Provate dunque a guardare alla vostra diversità come a un’opportunità non a una contrapposizione. E ricordate sempre che, come abbiamo già scritto per altre situazioni, «il tuo partner è altro da te, non contro di te».
Edoardo e Chiara Vian
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