In cerca di salvezza
Il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja ha dichiarato «genocidio» il massacro di Srebrenica dell’11 luglio 1995. L’esercito serbo comandato da Ratko Mladi? (Repubblica di Bosnia ed Erzegovina), assieme a truppe paramilitari (tra cui gli «Scorpioni Rossi»), massacra più di 8.500 bosniaci musulmani. Stermina ragazzi e adulti, dopo averli separati da vecchi, bambini e donne, e li seppellisce in fosse comuni. Per ragioni ancora vergognosamente oscure, le truppe olandesi, preposte come caschi blu dell’Onu a tutelare i civili, non intervengono e non scatta alcun appoggio aereo. La regista di Quo vadis, Aida? (2020) Jasmila Žbanić (bosniaca, classe 1974, vincitrice dell’Orso d’oro di Berlino con Il segreto di Esma, nel 2006, in cui madre e figlia patiscono le cicatrici psichiche a lungo termine del conflitto nei Balcani) orchestra più di 6 mila comparse per ricostruire un episodio politico-militare cruento e colpevole, incollando la macchina da presa su una leader spontanea: una donna, moglie, madre, insegnante, cittadina consapevole e indignata. È la bosniaca Aida Selmanagić (interpretata dall’attrice Jasna Durićić), docente d’inglese e traduttrice dell’Onu, la quale cerca di portare in salvo i due figli e il marito al di là dei confini di Srebrenica, dichiarata città protetta, ma in realtà tragicamente assediata. Famiglia o patria?
Aida, animata da una testarda passione per la vita, non sa come prestare il suo aiuto e chi privilegiare. I suoi familiari? Le altre potenziali vittime? Aida è perennemente in scena come un’eroina greca gettata dal destino in dilemmi ben più grandi di lei: famiglia o patria, fuga o resistenza simbolica, prossimità individuale ai soggetti più deboli o guida di una massa sbandata e spaventata. Il film documenta a futura memoria un episodio storico, che i giochi di potere internazionale tendono a occultare e che, invece, uno sguardo femminile (quello di Aida, quello della regista) fotografa indelebilmente e analizza nelle sue vibrazioni morali: il brivido del panico collettivo, la traballante speranza in un aiuto provvidenziale, la disperata ingegnosità degli uomini di cultura nel contenere la violenza dei boia. Mladić fu definito «il macellaio dei Balcani». Tremenda per la storia del cinema è la sequenza in cui i deportati sono ammassati in una sala di proiezione dalle cui feritoie non escono immagini, ma le punte dei mitra. Forse il cinema stesso può macchiarsi di tragiche colpe?
Aida col megafono dà istruzioni al gruppo, traducendo gli ordini degli ufficiali Onu. Aida corre avanti e indietro nella base dei caschi blu, cercando un riparo clandestino per i propri cari. Sono due indelebili immagini di una lupa inferocita, disposta al sacrificio pur di salvare i lupacchiotti dall’odio etnico. Altrettanto eloquente è la sequenza dell’inconcludente trattativa tra i rappresentanti dei cittadini bosniaci, il graduato olandese, che funge da comandante dell’Onu (lasciato solo dai suoi superiori per divergenze o omissioni decisionali) e Ratko Mladić, che aveva appena dichiarato festosamente di «donare la città serba al popolo serbo». Mentre gli invasori schiacciano la resistenza invadendo la città, l’orgoglio criminale ha già deciso e irride le ragioni della comunità internazionale, svuotata di credibilità e tenuta in ostaggio. Il film Quo vadis, Aida? dà il meglio in chiusura, nel tempo immobile e congelato in cui Aida torna solitaria e muta nella propria casa, ora occupata da serbi. Aida è svuotata e attonita, riconosce con disprezzo i volti degli ex carnefici, piange le spoglie frammentate dei defunti, riprende miracolosamente il ruolo di maestra, vede nei bambini il germe di una giustizia felice che a lei è stata strappata via.
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