Guido Harari, 50 anni tra palco e realtà
Sarà per la curiosità o per il bisogno innato della categoria di scavare oltre la superficie, fatto sta che i fotogiornalisti non hanno mai goduto di grande simpatia nel mondo dello spettacolo. Da sempre per molti artisti il termine fotografo è sinonimo di seccatura o, peggio, di lesione della privacy. «Mi hanno fotografata a morte» disse Marlene Dietrich, spiegando il motivo per cui, dal 1978, aveva deciso di non concedersi più all’obiettivo. Pure il collega Marlon Brando non amava molto i fotografi. Su tutti, il «re dei paparazzi» Ron Galella che – reo di averlo seguito dentro un ristorante di Chinatown – incassò un pugno in faccia che gli ruppe la mascella e cinque denti.
Certo, c’è fotografo e fotografo. Così, se da un lato del pianeta il reporter di turno finisce in ospedale, a migliaia di chilometri di distanza capita anche che una rockstar, stremata da un concerto, accetti di farsi ritrarre solo perché dietro l’obiettivo c’è una persona speciale che sa come metterlo a proprio agio. Un professionista talentuoso ed empatico. Un amico capace di catturare l’essenza delle persone. È il caso di Guido Harari, da molti etichettato come il ritrattista delle star, per la sua lunga lista di scatti vip. A questo maestro e ai suoi 50 anni di carriera, la Mole Vanvitelliana di Ancona dedica, fino al 9 ottobre, un inedito percorso espositivo: «Guido Harari. Remain in light. 50 anni di fotografie e incontri». Un progetto dello stesso Harari, a cura di Denis Curti, che – con oltre 300 foto, installazioni, e filmati dagli anni ’70 a oggi – prende spunto dal quarto album dei Talking Heads. «Remain in light è una dichiarazione d’intenti – spiega Harari –, un imperativo o un augurio scaramantico. “Restare in luce” è più dell’esortazione che il fotografo indirizza ai suoi soggetti prima di far scattare l’otturatore: è una preghiera, perché la memoria di quanto si è voluto fissare non evapori inghiottita dall’inesorabile macinare del tempo».
Artista, testimone, amico
Ma torniamo a quella star reduce da un concerto sfiancante... In realtà le star sono due. Siamo a Torino e corre l’anno 2002. L’orologio segna le 2 di notte quando Guido Harari immortala in un corridoio del backstage Lou Reed e Laurie Anderson (per intenderci, il frontman dei The Velvet Underground e sua moglie, anche lei musicista). Nessun segno di insofferenza sui loro volti. Harari suggella in un primissimo piano l’incontro di due anime complementari. Mentre Laurie chiude gli occhi e affonda il viso nella maglia del marito, inebriata dal suo profumo, il rocker – anche lui a occhi chiusi – alza la testa e si lascia andare a un momento di puro amore. Non è facile per un fotografo di vip assistere a una scena così intima. Ma Guido Harari è molto più di un semplice fotografo. E la sua missione, in fondo, consiste nel far parlare la musica che ognuno ha dentro di sé. «Sono sempre felice di farmi fotografare da Guido, che considero un amico – parole di Lou Reed –. So che le sue saranno immagini musicali, piene di poesia e sentimento».
Il legame con le note, del resto, in Harari ha radici profonde. Nato al Cairo nel 1952 e cresciuto a Milano, fin da ragazzino Guido condivide con gli amici una grande passione. «Eravamo ossessionati dal rock. I dischi erano il nostro internet», ricorda. La sua camera trabocca di vinili e ritagli di giornali, autografi delle star e riviste di musica (da «Salut Les Copains» a «Ciao Amici», a «Melody Maker»). È un fan dei Beatles (a 12 anni chiede alla madre di accompagnarlo al loro concerto a Milano), ma anche, tra gli altri, dei Rolling Stones e degli Animals. Ascolta i Kinks e Jimi Hendrix, Janis Joplin, Frank Zappa e i King Crimson. Due sono gli incontri che gli cambiano la vita: il primo con Shel Shapiro (il cantante dei Rokes) che Guido, in vacanza a Jesolo nel 1965, riuscirà a intervistare spacciandosi per un giornalista esperto. E il secondo con Omar Sharif, di passaggio a Milano nel 1967 per un torneo di bridge. Quando Harari scopre che suo padre da giovane aveva conosciuto l’attore, lo convince a contattarlo. Risultato: mezz’ora di intervista per il giornalino del liceo e una promessa strappata da Sharif al papà di Guido. Quella di regalare al figlio una chitarra, una Zerosette semiacustica.
Se da un lato il ragazzo studia note e accordi, dall’altro, con la Zeiss Ikon di suo padre, inizia a fotografare video musicali in tv e film al cinema. Ama sperimentare e spingersi oltre i luoghi comuni. Non a caso, nel 1971, rimane folgorato dallo scatto di una giovane Anne Leibovitz che, per la cover di «Rolling Stone», ritrae John Lennon in versione eroe proletario, con tanto di camicia in denim e salopette. Guido ormai ha imboccato la sua strada, anche se ancora lo ignora… «Non ho mai preso la decisione consapevole di diventare fotografo – ammette oggi l’artista –. A un tratto mi si è acceso l’interruttore di una passione e la macchina fotografica mi ha offerto la chiave per viverla. Disaddomesticare lo sguardo per poi resettarlo più e più volte è stato il segreto per decifrare e raccontare la nuova realtà. Più che una professionalità, andava coltivata una sensibilità». E così, un passo alla volta, Harari inizia a proporsi come fotografo e giornalista alle riviste, alle case discografiche, ai produttori e agli artisti stessi. «Imparavo sul campo e rapidamente, fotografando i concerti di Alexis Korner, Alan Sorrenti con Jean Luc Ponty, Emerson Lake & Palmer, Genesis». Tra i primi incarichi c’è anche la copertina dell’album d’esordio di una certa Gianna Nannini…
In pochi anni il palco diventa per Harari lo studio fotografico. Nel 1979 ci sale per immortalare il tour di Fabrizio De André con la PFM: risale a quel periodo una foto del Faber divenuta iconica. «Ci sono fotografie che segnano per sempre un destino, tracciando uno spartiacque tra un prima e un dopo – spiega Guido –. Come questa di Fabrizio addormentato a terra, contro un termosifone, in un corridoio di un palasport». A quanto pare il cantautore apprezzò di vedersi «vulnerabile e umano, come i personaggi di certe sue canzoni». La collaborazione con De André si trasforma ben presto in amicizia. E non sarà la sola nella carriera di Harari. La capacità di empatizzare con i suoi soggetti, d’altra parte, è un tratto distintivo del maestro. Lo sanno bene anche Claudio Baglioni e BB King, Pino Daniele e Lucio Dalla, Vasco Rossi (che soprannominerà il fotografo «Vasari del rock») e Luciano Pavarotti, Bob Dylan e Carlos Santana, Paolo Conte e Peter Gabriel. Nel 1983 quest’ultimo si lascia immortalare da Guido Harari nella sua stanza d’albergo, durante il trucco, prima di esibirsi in Shock the monkey al Festival di Sanremo. «Un delicato momento di transizione dal mondo reale alla dimensione dilatata della performance» che ancora una volta Harari riuscirà a rendere eterno.
Sempre in cerca di nuove sfide, Guido non si limita, però, a raccontare il mondo della musica. Tra i suoi soggetti si contano anche registi, attori, architetti, stilisti, scrittori, calciatori, scienziati e imprenditori (molti dei quali rientrano nel progetto Italians, realizzato con il giornalista Beppe Severgnini alle soglie del 2000). C’è Lina Wertmuller immersa nella sua vasca da bagno, vestita soltanto dei suoi occhiali bianchi. Ci sono Krizia e Giorgio Armani in posa come alcuni dei loro modelli. E ancora: Renzo Piano in laboratorio, tra strumenti e disegni nel 1998; Roberto Baggio (o meglio, un primo piano del suo codino); Carla Fracci con le mani sui fianchi e Rita Levi Montalcini intenta invece a chiudersi la giacca. Uomini e donne di arte e ingegno, di scienza e di fede. Come Margherita Hack, che annaffia le piante in giardino senza mai distogliere gli occhi dal cielo.
Guarda invece in basso Madre Teresa di Calcutta, ritratta a Roma nel 1994, piegata dagli anni e, viene da dire, dalle miserie dell’umanità. La stessa umanità che – a forza di consumare e inquinare – ha messo in ginocchio il nostro pianeta, innescando movimenti di protesta come Fridays for future. È il 2019 quando Harari ritrae uno striscione con su scritto Skolstrejk for climate (sciopero scolastico per il clima) tra le mani di Greta Thunberg. A prima vista il manifesto sembra quasi la naturale prosecuzione dell’impermeabile indossato dall’attivista... «Quando affronto il ritratto di una celebrity, devo sgombrare la mia mente da tutto l’immaginario che vi si è raggrumato nel tempo». In 50 anni di incontri, dopo aver aperto una galleria ad Alba ed essersi dedicato anche alla curatela di libri e mostre, Harari non ha mai cambiato idea. «Amo sorprendere e lasciarmi sorprendere – conclude il maestro –. Nei ritratti, come nella vita, il momento giusto è all’improvviso».
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