L’amico del tempo
Da due anni e mezzo stiamo combattendo un virus che ha sconvolto le nostre vite: i ragazzi hanno dovuto studiare con la didattica a distanza, guardando video sui loro monitor. Noi tutti, ogni giorno, cerchiamo sui media qualche notizia positiva, uno spiraglio di luce. Ci preoccupiamo per il deficit dello Stato, ascoltiamo un dibattito con la par condicio, paghiamo l’una tantum e stipuliamo un’assicurazione auto con il bonus malus. Ah, sì: a giugno siamo anche andati alle urne per i cinque referendum sulla giustizia che non hanno raggiunto il quorum. Fateci caso: in neanche venti righe abbiamo incontrato una miriade di parole latine di uso comune, termini sulla bocca di tutti che qualcuno scambia magari per anglosassoni, pronunciandoli pure all’inglese. Secondo il Grande dizionario italiano dell’uso, curato da Tullio De Mauro, si contano almeno 35 mila latinismi nel nostro linguaggio quotidiano.
Il latino ci accompagna, e non soltanto perché è la radice della lingua italiana o per qualche termine che rispunta nei discorsi. Il latino è la nostra storia, fa parte di noi, anche se non sempre ce ne rendiamo conto. «Il latino non è un reperto archeologico, né uno status symbol, né un mestiere per pochi sopravvissuti. Nel latino c’è un’eredità, cioè un capitale da far fruttare. Una vera ricchezza culturale», sottolinea il professor Ivano Dionigi, presidente della Pontificia accademia di Latinità e già rettore dell’Università di Bologna, autore di numerosi saggi tra cui il bestseller Il presente non basta. La lezione del latino (Mondadori). Dal latino – aggiunge – possiamo apprendere almeno tre elementi fondamentali, «il primato della parola, la centralità del tempo, la nobiltà della politica», tutti valori che sembrano essere sbiaditi in questa nostra epoca interamente proiettata su un presente che corre veloce tra computer e smartphone, pur tra contraddizioni evidenti: nell’arco di pochi anni, per esempio, il web ha ampliato a dismisura le possibilità di comunicare e di accedere alle informazioni, eppure, in parallelo, si è via via ridotta la capacità di comprensione e il lessico si è progressivamente impoverito.
Lingua «dei signori»?
Prima ancora di essere una lingua morta, in Italia il latino è una lingua (e soprattutto una cultura) messa in disparte. Oggi viene insegnato soltanto al liceo classico, allo scientifico «tradizionale» e in pochi altri indirizzi: alla scuola media è stato abolito per legge quasi cinquant’anni fa, dall’anno scolastico 1977-’78, anche se da qualche tempo si sta facendo strada l’idea di reintrodurlo, almeno tra i corsi propedeutici e le attività «volontarie» che ogni istituto può offrire. «La tradizione greca e latina è chiave di interpretazione e di lettura della contemporaneità», ha ammesso di recente il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi. Sul latino – in particolare dal secondo dopoguerra – hanno pesato però due pregiudizi, uno prettamente ideologico, l’altro utilitaristico. Il fascismo si servì delle lingue classiche in chiave propagandistica per esaltare i fasti della Patria, e di conseguenza il latino è stato poi considerato reazionario, elitario, «la lingua dei signori», come sentenziò Pietro Nenni, sebbene lo stesso Antonio Gramsci ritenesse invece che conoscere il latino o il greco fosse un modo per capire le civiltà dei popoli, «presupposto necessario della civiltà moderna».
Su un altro versante, con l’avvento delle tecnologie, il latino è stato giudicato poco utile per chi debba districarsi tra problemi scientifici all’insegna della concretezza e dell’immediatezza. La nostra società delle tre «I», Internet, Inglese e Impresa, ha lasciato in un cantuccio il caro latino, dimenticato come un vecchio libro polveroso. E ha privilegiato le competenze tecniche, rispetto a quelle umanistiche.«Non sono così fuori dal mondo da ritenere che si possa andare avanti a colpi di latino nell’era della Rete – confida il professor Dionigi –. Il latino non serve per essere parlato, ma per la storia delle idee, dall’arte alla filosofia, al diritto. Il latino è amico del tempo, ci ricongiunge alla tradizione e ci aiuta a parlare bene in un mondo in cui la parola è sempre più trascurata, negletta. Non ho mai capito la rovinosa alternativa per cui l’inglese o l’informatica debbano sostituire, e non piuttosto integrare, altre discipline come il greco o il latino, l’arabo o il cinese». Insomma, non è questione di fare una scelta, un aut aut (per utilizzare, appunto, un’espressione latina): si può optare per un et et, «abbinare Socrate e Prometeo, il notum e il novum, lo sguardo rivolto verso la storia e quello aperto sul futuro».
Il pensiero di Ivano Dionigi è condiviso anche da molte altre personalità della cultura. «Nel momento in cui ci muoviamo sempre più verso un sapere tecnologico, il fatto di essere più consapevoli delle radici della nostra cultura è assolutamente positivo», ha detto padre Antonio Spadaro, direttore di «La Civiltà Cattolica», commentando la notizia del possibile ritorno del latino alle medie. «Ben venga il latino – ha rimarcato il filologo Luciano Canfora –. Alcuni candidati ai concorsi in magistratura sono stati bocciati e cacciati perché hanno commesso errori di ortografia, oltre che di sintassi dell’italiano. Conoscere il latino serve anche a scrivere bene in italiano».
Per imparare a imparare
E c’è chi si spinge anche a spiegarci Come il latino ci salva la vita: lo fa in un saggio (pubblicato da Edizioni Ares) la professoressa Silvia Stucchi, docente all’Università Cattolica e all’Università degli Studi di Milano. «È un titolo volutamente provocatorio, dal momento che alcuni studenti e le loro famiglie pensano invece che il latino serva soltanto a complicare la vita – sorride l’autrice –. In realtà, se non sappiamo chi siamo e da dove veniamo, difficilmente possiamo scegliere dove andare. E il latino ci dice tutto della nostra tradizione culturale, storica e linguistica». Secondo alcuni detrattori, il rigore del latino, le sue regole e la sua precisione finiscono per dissuadere gli studenti, anziché invogliarli. «Ma non possiamo paragonare lo studio del latino o delle lingue classiche con quello delle lingue contemporanee. Imparare il latino significa apprendere anche il suo metodo, per poi ritrovare le testimonianze che quel mondo classico ha lasciato a tutti noi. Studiare il latino serve per imparare a imparare», aggiunge la professoressa.
E lo dimostra una statistica di qualche anno fa, relativa alle università lombarde: gli studenti che raggiungevano più velocemente il traguardo di corsi di laurea apparentemente distanti come Medicina o Giurisprudenza erano quelli che arrivavano dall’«architettura» dello studio del latino. «Lo studio dei classici è un allenamento allo studio in senso lato, e all’uso più consapevole della lingua italiana», ricorda ancora Silvia Stucchi. In appendice al suo libro ha ripreso un racconto di Guy De Maupassant, il cui protagonista, il signor Piquedent, provetto istitutore, capace di far appassionare al latino generazioni di studenti, alla fine si ritrova ad aprire una drogheria perché – confessa – «il latino non fa bollire la pentola». «In realtà il latino non lo abbandonerà mai, come sanno tutti coloro che lo hanno studiato con amore», commenta la docente.
«Il latino non è una disciplina ma uno stile di vita», le fa eco a sua volta Ivano Dionigi. E lo hanno forse capito meglio di noi proprio gli inglesi: nel Regno Unito lo scorso anno il governo ha stanziato quattro milioni di sterline per offrire l’insegnamento del latino a migliaia di studenti della scuola pubblica. Secondo gli esperti d’Oltremanica, lo studio del latino può aiutare anche nell’apprendimento di altre materie, come la matematica. Ed è questa la «sfida del latino» che ripropone ormai da tempo don Romano Nicolini, sacerdote ultraottantenne di Rimini. Ha realizzato un agile manualetto in italiano e in inglese (che diffonde gratuitamente a quanti lo richiedono) con i Primi passi sulla strada della lingua latina, un piccolo sussidio con le regole di base su casi, declinazioni e coniugazioni, per entrare in punta di piedi «nell’affascinante universo del latino classico». Rosa rosae rosae, nominativo, genitivo o dativo, e la generosa bellezza di termini e locuzioni. Il latino non deve far paura. «Io auguro a tutti i lettori – scrive don Romano – che il percorso alla scoperta della lingua latina sia per loro piacevole, avventuroso, divertente e pieno di soddisfazioni almeno quanto lo è stato, e continua a esserlo, per me». E con il suo libellus consegna il latino alle nuove generazioni.
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