Nuovi alunni: non solo studio
Mi racconta la mamma di un ragazzo di 15 anni che sta per finire la prima superiore: «Mio figlio non studia. Ci provo in tutti i modi: lo minaccio, lo ricatto – “Se non ti dedichi alla scuola, non ti compro il nuovo cellulare”. “Se non ti impegni, sospendi le vacanze che ti avevo promesso…” – e lui come se niente fosse. Si butta sui libri all’ultimo momento, prima di dormire o la mattina prima di andare a scuola. Un po’ alla “quando capita, capita”. Anche se i voti sono discreti, questo suo atteggiamento mi fa friggere il sangue. Per me era diverso, ce la mettevo tutta, volevo fare bella figura e dare il meglio di me. E poi mi piaceva studiare. Mi dava soddisfazione. Sono stata la prima laureata di tutta la mia famiglia».
Mi chiedo: chi vive peggio questa situazione, la mamma o il figlio? Gli alunni sono cambiati e la scuola fa molta fatica a riconoscere questa trasformazione. Il loro rapporto con lo studio è profondamente diverso da quello delle generazioni precedenti. Percepisco un cortocircuito: quello che valeva fino a qualche anno fa oggi appare particolarmente lontano dal mondo e dalle abitudini delle nuove generazioni. Se prima lo studio rappresentava forse l’unica occasione di emancipazione e di riscatto sociale, nei tempi attuali viene visto più che altro come la possibilità di ottenere un diploma. Chiamarli studenti appare quasi improprio. Il loro rapporto coi libri è profondamente mutato. Una volta, dai 15 ai 18 anni si leggevano i grandi romanzi di formazione. È raro che oggi un adolescente si invaghisca dei classici della letteratura. Emergono altre priorità più pratiche e concrete. Viviamo dentro a un’accelerazione temporale totalmente inedita. Quando leggo articoli online, mi sorprende sempre che venga segnalato il tempo di lettura, quasi che fosse un’incombenza di cui liberarsi al più presto possibile e continuare a fare altro.
Penso che il nuovo mondo di bambini e ragazzi meriti un’attenzione diversa dai soliti metodi – lezione frontale, studio-interrogazione – che non li raggiungono più. Non creano quella passione che tanti loro genitori e nonni hanno avuto. I ragazzi vivono in un desiderio più pratico, più concreto e operativo. Chi mai si sognerebbe di imparare, leggendo un manuale di istruzioni? Lo fanno e basta. Ma attenzione alle abbuffate tecnologiche. Serve una scuola-laboratorio, profondamente sociale e cooperativa, dove l’apprendimento si vive in una dimensione applicativa. Lo dicono anche grandi scienziati come Howard Gardner: «Possiamo essere certi di aver imparato qualcosa quando lo sappiamo applicare, non quando lo sappiamo ripetere in un’interrogazione», magari studiata la sera prima, aggiungo io. La scuola deve offrire ai nostri alunni una metodologia più attiva e coinvolgente, più maieutica, in grado di farli lavorare concretamente piuttosto che far loro ascoltare semplicemente lezioni e contenuti. Le nuove generazioni ci mostrano una qualità diversa che nel complesso mi sembra benevola per tutti noi e anche per il futuro della società.
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