Io sono Christophe
È sottilissimo il confine tra «noi» e «loro». Tra le nostre vite «normali» e il perenne viandare delle loro esistenze vissute notte e giorno, estate e inverno, avendo come tetto il cielo (che no, non è un’immagine romantica). E basta davvero poco per infrangerlo quel confine: un lavoro che se ne va, un matrimonio che fallisce, una dipendenza totalmente fuori controllo ed ecco che, all'improvviso, tutto si fa dolore, un dolore vischioso che trattiene, rende immobili e incapaci di reagire. A fare la differenza, per «loro», è quasi sempre l’assenza di una rete sociale, amicale: se non hai nessuno a cui appoggiarti, nessuno che ti ascolta, ci vuole poco a farti inghiottire dal baratro. Fa paura pensarci, fa paura sentirsi fragili e avvertire quanto poco ci separi dalla possibilità di ritrovarci «come loro» a vivere in strada; eppure questa stessa paura può renderci esseri umani migliori, se riusciamo a trasformarla in uno sguardo empatico sul «loro» mondo, il mondo dei senza fissa dimora. Perché è lo sguardo, in fondo, a fare la differenza, la fa sempre. E lo sguardo è anche l’elemento da cui parte questa storia.
Siamo a Parigi, è l'estate del 1995. Nicola è un ragazzo italiano di 19 anni in vacanza nella città dei lumi. Anche Sami è quasi un ragazzo, avrà sì e no 28 anni, ma per lui Parigi è l’arido approdo di un viaggio che dalla Tunisia l'ha portato fin qui. È arrivato con uno zaino carico di desideri e sogni, vuole fare lo scrittore, raccontare la sua terra, i suoi profumi, le immagini che incessantemente scorrono nella sua mente. Ma come fa un invisibile a scrivere? Come può dare voce al suo mondo interiore se la strada quella voce la disperde in mille rivoli? E così, giorno dopo giorno, è il silenzio a inghiottire la sua vita, bollandola con la lettera scarlatta della vergogna: clandestino, clochard . Un giorno, però, lo sguardo di Sami incrocia per un attimo quello di Nicola: basta questo per innescare il cambiamento. Lo sguardo si fa parola e i due trascorrono un paio di giorni insieme alla scoperta della capitale francese. Poi Nicola riparte, torna a casa, e Sami riprende il suo quotidiano viandare.
Ma l’incontro si perpetua in uno scambio di lettere tra i due, che va avanti per qualche mese. D’un tratto le missive si interrompono. Il giovane italiano pian piano non pensa più all’amico incontrato a Parigi, eppure quelle lettere le conserva, le porta con sé in ogni trasloco, in ogni nuova tappa di vita. Passano venticinque anni e un giorno Nicola se le ritrova tra le mani e le rilegge. Con la sensibilità di oggi, la sensibilità dell’uomo di teatro – attore, autore e regista – che nel frattempo è diventato, capisce che in esse è racchiuso un tesoro di umanità e decide di restituire loro nuova vita. Nasce così Christophe o il posto dell'elemosina, il testo scritto, diretto e interpretato da Nicola Russo, che andrà in scena al Teatro dell'Elfo Puccini, a Milano, dal 21 marzo al 7 aprile. «Sami è diventato Christophe nella finzione scenica, e le lettere sono state uno spunto per narrare una vicenda che io ho reinterpretato con i miei occhi» confida Russo. Solo sul palcoscenico, in un particolare allestimento site specific (studiato, cioè, appositamente per la sala teatrale in cui lo spettacolo andrà in scena) curato da Giovanni De Francesco, Nicola Russo è impegnato in un monologo poetico e struggente, che dà voce al silenzio di un uomo segnato dalla vita, ma non per questo vinto. Anzi, un uomo in una costante «ricerca del bello che ne illumina l'interiorità e lo rende ben più di un semplice cercatore di elemosina», sottolinea l'autore.
«Quelle lettere – prosegue –, che nei giorni della messa in scena saranno in mostra nel foyer del teatro, sono una ricchissima testimonianza del mondo interiore di Sami/Christophe. E sono anche “esteticamente” belle, perché non sono scritti convenzionali: Sami mi spediva frammenti del suo diario, poesie, farfalle di carta che prendevano il volo quando aprivo la busta, addirittura una scatola piena di fiammiferi usati. Tutte quelle missive così differenti erano però accomunate da una cifra: un grande bisogno di comunicare che celava un desiderio più grande, quello di scrivere, senza però sentirsi all’altezza del “ruolo”. Rileggendo quelle pagine con la sensibilità di oggi, ho colto la richiesta di aiuto che esse contenevano e ho cercato di intuire che cosa ci fosse dietro. Non volevo però usare nel mio testo gli scritti di Sami e così ho preferito reinventare la sua storia, immaginando che la strada fosse stata per lui una scelta, piena di disagi, certo, ma anche di una grande libertà di ascoltare il mondo. Ho così in un certo senso teorizzato la vita di un clochard, immaginando lo sguardo poetico di un uomo sulla realtà, uno sguardo che a un certo punto diventa arte. È un po’ come se fosse stato lui a passarmi il testimone: “Racconta la mia storia”».
Il protagonista del testo teatrale è una figura complessa che stenta a trovare un suo posto. «Christophe – sottolinea Russo – è un outsider non soltanto per la società borghese, ma anche per il gruppo dei senza fissa dimora. Lui non rispetta i canoni di nessuno dei mondi che attraversa: deve esprimersi male, fingendo di non conoscere gli articoli determinativi, per sentirsi come gli altri poveri che vivono in strada, e ogni tanto, con l’elemosina che raccoglie, deve trascorrere qualche giorno in un piccolo motel, per poter avere una parvenza di quotidiano vivere borghese. Forse a colpirmi è stato il suo essere fuori da ogni schema, una condizione umana in cui mi sono riconosciuto. Perché, in fondo, le storie che sentiamo il bisogno di raccontare sono quelle che ci parlano, quelle in cui troviamo un aggancio con la nostra anima. Christophe è un uomo solo, che paga il prezzo di questa solitudine ma che della solitudine vive anche le grandi possibilità».
Sta proprio qui la forza evocativa di questo testo. Sarebbe stato facile, in fondo, descrivere Sami/Christophe come un relitto sociale, umiliando così ulteriormente la sua umanità: la retorica della povertà è sempre in agguato, se non si fa attenzione. Il lavoro di Nicola Russo, invece, si muove su un altro livello, descrivendo Christophe come un uomo che, pur nel dramma in cui vive, ha mantenuto integra una propria personale dignità. «Io credo che l’impegno civile nel teatro sia in realtà molto legato al restituire dignità ai personaggi, al loro presente e al loro passato – conferma l’autore –. Ma questo processo ha un ingrediente indispensabile, senza il quale non può dipanarsi: la sincerità. Lo spettatore rifugge dai moralismi, dalla retorica e sente invece la verità dello sguardo che gli parla. È questa sincerità a metterlo in dialogo con se stesso, con la propria interiorità e a farlo interrogare. Se dunque un cambiamento può essere innescato dal palcoscenico, questo può avvenire solo dinanzi alla verità di chi per primo su di esso si mette in gioco con sincerità e rispetto».
Ed è proprio per questa sua capacità di dare una voce degna al mondo della marginalità, che il testo teatrale ha ricevuto il premio «Le Cure» – promosso da Caritas Ambrosiana, con il supporto del Pontificio Consiglio per la Cultura –, nato per far incontrare e dialogare i mondi della cultura e della solidarietà. «Il compito del teatro – ha sottolineato in occasione dell’attribuzione del premio il cardinale Gianfranco Ravasi, citando Bertolt Brecht – è “ricreare” la gente: cioè divertirla, ma anche rigenerarla, lasciando in essa una ferita interiore, artigliandone la coscienza». Obbligandola, in questo modo, a confrontarsi con se stessa come in un gioco di specchi.
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