C’era una volta il pudore
«Ho sentito una curda dire che non c’è sentimento più rivoluzionario della vergogna. Ecco, in un contesto dove non esiste più nessun tipo di vergogna e di pudore, il mitomane prospera e cresce come i cinghiali a Roma nord. Se si ristabilisse quel minimo vergognarsi e avere un po’ di pudore nel porsi di fronte agli altri, molto si migliorerebbe». A dirlo non è il moralizzatore di turno, ma Zerocalcare, fumettista tra i più caustici e irriverenti del panorama italiano, intervistato da Chiara Valerio su «la Repubblica» dello scorso 26 marzo. E, se l’ha detto lui, forse un pensierino sulla quasi scomparsa del pudore che pare aver colpito questa nostra epoca vale proprio la pena di farlo. Senza per questo rimpiangere il puritanesimo ottocentesco che aveva issato il pudore a valore principe, oltretutto facendone una questione prettamente «muliebre».
Il pudore, questo sconosciuto
Cerchiamo innanzitutto di capire di che cosa stiamo parlando. La parola pudore deriva dal vocabolo latino pudor (dal verbo pudeo, cioè non avere coraggio e, in un significato più ampio, provare vergogna) che esprime sentimenti di riserbo ma anche di disagio nei confronti di parole o comportamenti. «Jean Guitton, in una sua opera dal titolo Saggio sull’amore umano (1954) – spiega don Roberto Massaro, presbitero della diocesi di Conversano-Monopoli (BA), docente di teologia morale e bioetica presso l’Istituto teologico “Regina Apuliae” della Facoltà teologica pugliese e autore di Si può vivere senza eros? (Emp, 2021) – definiva il pudore non soltanto un meccanismo di protezione, ma anche “organo dello sviluppo spirituale” e “mediatore dell’unità dell’anima col corpo”. Sicuramente esso ha a che fare primariamente con la sessualità, in quanto si pone come risorsa morale che protegge e salvaguarda la sfera più intima dell’individuo, ma è collegato anche alla definizione della propria personalità, in quanto, richiamando i sentimenti di vergogna, di riservatezza e di rispetto, “custodisce l’essere” di ogni individuo, impedendo che il corpo venga ridotto a oggetto e che la persona sia violata nella sua intimità e riservatezza».
Di parere simile il filosofo Umberto Galimberti che, nella sua Enciclopedia della Psicologia, è lapidario: il pudore, dice, serve a «conservare il possesso della propria intimità, difendendola dalla possibile intrusione dell’altro», attribuendogli dunque un valore e un compito soprattutto relazionali, come se ci si trovasse dinanzi a una sorta di «frontiera buona» tra noi e gli altri. Immagine utilizzata anche dallo psicologo e psicoterapeuta Federico Carniello, quando afferma che «nella nostra società, in cui lo sguardo dell’altro, nelle varie accezioni, è portato a intrufolarsi ovunque, trovando dall’altra parte altrettanta disponibilità all’esibizione, la riscoperta della intimità come luogo di libertà merita di essere considerata una frontiera dove rappresentare l’attualità delle esperienze relazionali».
La scomparsa del pudore
Difficile dire quando il pudore ha cominciato a farsi virtù rara. Molti indicano come momento topico della sua apparente eclissi la fine degli anni ’60 del secolo scorso con il movimento di liberazione sessuale. Per altri, invece, il fenomeno sarebbe più tardivo e si sarebbe sviluppato a partire dalla fine degli anni ’90, in concomitanza non solo con l’avvento della Rete (e successivamente dei social network) ma con il verificarsi di un fenomeno cui il sociologo Vanni Codeluppi ha dato il nome di «vetrinizzazione sociale» e che consiste in una tendenza generalizzata a voler mettere in mostra (come si era cominciato a fare, nel Settecento, con le merci, spostandole dai retrobottega alle vetrine), a spettacolarizzare se stessi, la propria vita e tutto ciò che ruota attorno a essa, con lo scopo di attirare l’attenzione della gente, come se la propria esistenza assumesse valore solo quando è sotto gli occhi di tutti.
Da allora in poi, infatti, in una continua corsa a chi mostra di più, che obbedisce a una logica prettamente mercantile, tutto o quasi è stato sottratto alla sfera del pudore (si è giunti a esibire anche momenti profondamente intimi, come la nascita o la morte). Il corpo stesso, oltre che venire ostentato, è stato sottoposto a un vero e proprio processo di packaging (il processo di imballaggio, confezionamento e presentazione che di solito subiscono i prodotti da offrire al pubblico) per renderlo attraente come una qualsiasi merce e garantirsi così i riflettori puntati su di sé. Questo meccanismo ha aperto la strada a tutta una serie di comportamenti al limite del patologico (dagli acquisti compulsivi alle varie manipolazioni del corpo unicamente per rispondere a certi canoni estetici) e, soprattutto, ha messo l’identità personale al servizio, quasi, di quella sociale, annullando in tal modo la distanza tra noi e gli altri, che fino a quel punto era stata salvaguardata dal pudore.
Ma il pudore, tuttavia, non è scomparso. Un po’ malconcio, ma ha resistito. È ancora don Roberto Massaro a ricordarlo: «Nonostante il nostro tempo sia il tempo dell’ostentazione anche del corpo e della nudità (e basta riandare con la mente agli abiti esibiti da cantanti e presentatori al recente Festival di Sanremo per averne conferma), il pudore non è totalmente sparito. Dire il contrario sarebbe un’affermazione troppo forte e decisamente pessimista. La cultura contemporanea non è un mostro che sta tentando di distruggere tutti i valori elaborati dalla società nei secoli passati. Forse li sta solo trasformando. Basti pensare all’attenzione alla privacy, al bisogno di proteggere la propria intimità, alla necessità di non essere trattati come un oggetto nelle relazioni sentimentali…».
Costitutivo dell’umano
Verrebbe da chiedersi in che modo il pudore sia riuscito a resistere. La risposta la danno sociologi e psicologi: siamo dinanzi a una virtù costitutiva dell’umano, una virtù, dunque, che addirittura definisce il nostro essere uomini e donne. Difficile, quindi, molto difficile da eliminare. Lo dice chiaramente anche la psicoanalista e psichiatra Monique Selz in un libro di qualche tempo fa (Il pudore. Un luogo di libertà, Einaudi 2005), laddove sostiene che il pudore si caratterizza a tutti gli effetti come «manifestazione di umanizzazione» che «differenzia l’uomo dall’animale», poiché «traduce, in concreto, con atteggiamenti che coinvolgono il corpo, la psiche e il pensiero, una delle specifiche problematiche dell’uomo nell’incontro con l’alterità, che lo obbliga a confrontarsi con un altro e a pensare l’esistenza dell’altro in rapporto a sé e reciprocamente». Il pudore sarebbe dunque, secondo Selz, «una necessità vitale» prima ancora che un dovere morale, in quanto, collocandosi «sempre alla frontiera fra sé e l’altro, fra l’individuale e il collettivo» dimostra «attenzione verso se stessi e verso l’altro, assicurando il rispetto di ciascuno».
Non solo. Il pudore, garantendo la costruzione di un rifugio per il sé e assicurando così l’integrità dell’individuo, sarebbe fondamentale anche per la salvaguardia dell’integrità collettiva, visto che ogni persona è legata in modo indissolubile all’appartenenza a un gruppo sociale: «In questa irriducibile articolazione» che prevede la «congiunzione fra singolare e plurale» si colloca dunque «il luogo di esercizio e di manifestazione del pudore», sottolinea infatti la psicoanalista. Se «la collettività ha smarrito i mezzi per garantire il pudore, allora è al singolo che tocca il compito di diventarne il guardiano individuale», pena il ricadere negli orrori provocati dai vari totalitarismi del XX secolo, i quali, pretendendo di negare l’esistenza di uno spazio di libertà individuale, tentarono di sopprimerlo in nome di pretesi interessi collettivi superiori, con i terribili effetti che tutti purtroppo conosciamo.
Di pudore quale garante e nume tutelare della nostra libertà, anche più specificatamente nella sfera della fisicità, ha sempre parlato anche il cristianesimo. Rileva a riguardo don Roberto Massaro: «Forse qualcuno, nella nostra società così “ipersessualizzata”, potrebbe parlare del pudore come di un limite alla nostra libertà, come di una forma di inibizione, se non di oppressione, della dimensione ludica della sessualità. Invece, in un’ottica cristiana, è esattamente il contrario. Proviamo a dare uno sguardo, seppur sommario, alla Scrittura.
Nell’Antico Testamento, il pudore (che emerge come sentimento a partire dalla caduta dei progenitori narrata in Gen 3) non è solo una protezione della sfera sessuale dal disordine introdotto dal peccato, ma è anche una forma di delimitazione e rispetto dell’intimità e della riservatezza della persona (cfr. Gen 9,22). Nel Nuovo Testamento, poi, ogniqualvolta si parla di impudicizia, non lo si fa per disprezzare la corporeità o la sessualità, ma per impedire che queste vengano ridotte a mero oggetto di possesso, in balìa delle passioni. In tal senso, allora, già il dato biblico ci presenta il pudore come “garante” della nostra libertà, “spinta” interiore a non dominare e a non lasciarsi dominare».
«Purtroppo – prosegue il sacerdote – l’etichetta che solitamente si attribuisce all’etica cristiana è quella di essere nemica del piacere e sessuofobica. Forse anche perché, in passato, l’attenzione verso i comportamenti sessuali è stata parossistica. L’annuncio cristiano, al contrario, è “buona notizia” che tocca ogni ambito della vita dell’uomo, e le virtù che la tradizione ci ha donato a custodia della sessualità (la temperanza, la castità, il pudore) non dicono il disprezzo verso questa sfera così importante dell’esistenza, ma ne affermano il suo valore profondo».
La riscoperta del pudore
Se dunque, come afferma Selz nel suo libro, «una comunità umana non può sopravvivere a lungo alla perdita del pudore», perché «pretendere di poterne fare a meno e di poter fare a meno delle pratiche corporali e sociali che gli sono legate significa perdere quella qualità che rende l’uomo un animale pensante», come si fa a restituire al pudore il compito che gli è proprio? Ricominciando dall’educazione, ovviamente. Un’educazione, però, che coinvolga trasversalmente tutte le generazioni, pur avendo un occhio di riguardo per quelle più giovani. È necessario, infatti, rieducare e rieducarsi alla comprensione di un semplice principio: mettere in piazza i propri sentimenti più preziosi, le proprie sofferenze, i propri successi o fallimenti, la propria nudità, fisica o psicologica che sia, ci rende inutilmente fragili ed esposti al potere degli altri su di noi, anche di chi non dovrebbe averne.
«L’educazione è fondamentale – ribadisce anche don Massaro –. Ed è sempre possibile, anche se è sempre una sfida. Oggi soprattutto i giovani vanno ascoltati e compresi. Perché non sono senza valori, ma ci mostrano un’interpretazione creativa degli stessi. Non sono senza pudore, ma hanno un pudore “differente”, che elaborano in un modo originale. Prestiamo ascolto a questa originalità e, da adulti, cerchiamo di presentare il pudore non come l’ennesima violazione della libertà, ma come quel sentimento o virtù che promuove e rispetta la libertà, che sa fermarsi sulla soglia delle esistenze altrui, per promuoverne la dignità».
Pudichi anche in coppia
Il pudore è virtù preziosa anche per la vita di coppia. Infatti «il pudore che, come abbiamo già detto, impedisce di ridurre il corpo a oggetto da possedere – conferma don Roberto Massaro – e diviene pertanto apertura della persona all’altro e ripiegamento della persona su di sé (inteso in senso positivo come protezione della propria intimità), non può essere estraneo alla relazione di coppia. Lo spiega molto bene il professor Antonio Autiero, filosofo e teologo, quando scrive che “il pudore si manifesta proprio in questo aprirsi agli altri, in un incontrarsi con gli altri che vuole essere totale, da persona a persona che si rifiuta di assumere la forma esclusiva della corporeità”. Potremmo dire, allora, che nella relazione di coppia il pudore non viene eliminato, ma si trascende e si invera. Lì dove c’è amore il pudore cambia volto: si fa da parte nello scoprire totalmente la propria nudità e matura rifiutando di ridurre la relazione al solo incontro sessuale. Nell’intimità il pudore diventa erotismo, forma autenticamente umana della sessualità».
E se servisse un’ulteriore conferma, è ancora Monique Selz a suggerirla: «L’amore è possibile solo se chi ama e chi è amato sono distinti l’uno dall’altro e dunque separati». Separati nel senso che entrambi gli elementi della coppia godono di una reciproca libertà che impedisce di «sovrapporre il desiderio dell’uno a quello dell’altra». Ed è solo in questo spazio di reciproca libertà che può avere luogo l’incontro, il riconoscimento e lo scambio. Il pudore diviene allora non solo «luogo» del vero contatto, ma anche espressione di quel rispetto profondo che non può mai mancare in una relazione d’amore.
Pare proprio, dunque, che senza pudore la nostra vita – nella dimensione personale, amicale, di coppia e collettiva – rischi molto. Anche perché il pudore alla fin fine chiama in causa anche una dimensione di responsabilità. Per questo diventa oggi fondamentale, conclude Selz «inventare luoghi, momenti e gesti nuovi, che consentano a ognuno di essere in grado di costruirsi le proprie frontiere senza sconfinare in quelle altrui». Perché la dinamica indotta dal pudore ha una funzione che «mira a permettere al soggetto, al cittadino, di raggiungere un’autonomia che porti ciascuno ad assumersi le proprie responsabilità individuali e collettive nel rispetto dello spazio privato. Che è appunto ciò che fa al contempo del pudore condizione “per” e luogo “di” libertà».
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