Spigolature urbane
«Signore come funziona questa macchinetta per il parcheggio?» mi chiede una signora anziana che stava cercando, come me, di pagare la sosta nelle righe blu. In quella città l’azienda che gestisce i parcheggi comunali - cioè suolo pubblico, quindi di tutti -, ha avuto la buona idea, ormai diffusa, di richiedere al cittadino di inserire nella macchinetta il numero della targa. «Non me la ricordo», mi dice la signora. Mi indica dove si trova la sua auto, distante per lei che aveva difficoltà a camminare. Vado, faccio una foto alla targa, e l’aiuto a pagare il ticket.
Alla fine, una domanda mi è sorta spontanea: «Perché occorre inserire la targa?». La sola risposta che mi viene in mente è impedire al parcheggiante che ha pagato due ore e ne ha usata una sola di poter donare a qualcun altro l’ora residua. Un’amica vigilessa mi dice che, forse, ci potrebbe essere anche un’altra ragione: se per errore mi fanno la multa perché non vedono lo scontrino sull’auto, con la targa posso dimostrare che avevo pagato. Onestamente, credo che la prima ragione sia di gran lunga quella dominante, visto che in quasi quarant’anni di guida non ho mai ricevuto multe quando avevo pagato il parcheggio!
Quindi la questione è semplice: un’azienda for-profit deve massimizzare i guadagni, e se gestisce un bene pubblico per conto del comune lo fa con lo scopo di fare profitti. E invece io sono convinto che aziende pubbliche o private che gestiscono beni comuni e pubblici dovrebbero essere imprese civili, o non-profit, che non hanno, cioè, come obiettivo massimizzare i profitti, ma gestire con efficienza un bene di tutti. L’introduzione di un prezzo per gestire beni pubblici può servire per razionalizzare la gestione (le cose gratis diventano quasi sempre cose di nessuno) e non necessariamente per fare cassa.
Ma quali sono gli effetti dell’introduzione del numero di targa? Il primo lo abbiamo visto: le persone non sono tutte uguali nei loro «funzionamenti», direbbe il grande economista Amartya Sen. Quindi gli interventi pubblici e amministrativi hanno effetti diversi sulle diverse persone. E un buon criterio da seguire quando si vuol innovare nei beni pubblici è guardare gli effetti dell’innovazione a partire dalle categorie più svantaggiate: anziani, bambini, persone con disabilità.
Poi c’è l’effetto specifico legato al divieto di scambiare i ticket con altri concittadini. Quando studiavo a Londra, c’era una fermata della Metro dove tutti sapevano che si potevano trovare dei ticket con durata ancora valida, lasciati lì da chi non li aveva usati tutti perché ne usufruissero giovani e poveri. Impedire questi (possibili) scambi per qualche dollaro in più, oltre a essere civilmente stupido, lancia segnali sul tipo di città che si vuol realizzare: una città dove stanno meglio i forti e i ricchi, e dove stanno sempre peggio i fragili e gli scartati. All’origine della civiltà biblica c’è l’istituzione solidale della spigolatura. Il libro, bellissimo, di Rut è tutto costruito su di essa: quando i mietitori passavano a tagliare le messi non ripassavano una seconda volta, perché la seconda battuta era per i poveri, le vedove, i forestieri. I campi non erano soltanto dei padroni, perché «tutta la terra è di Dio».
Stiamo privatizzando i beni comuni, stiamo eliminando le molte forme antiche di spigolatura. Avremo presto città abitate da sempre più mercanti e da sempre meno cittadini, dove tutto il raccolto si esaurisce nella prima battuta. E forse la signora anziana non uscirà più a fare la spesa: gliela porterà a casa una nuova azienda che farà profitti con queste consegne. La città sarà più povera e triste, e noi con essa.
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