Fenomeno «Dizi»

Dal divano di casa alle università, dai set di Istanbul ai canali italiani. Dietro il successo delle serie tv turche, si nasconde un intreccio di emozioni, censura e lavoro precario.
12 Dicembre 2025 | di

Le strade di Istanbul, i tramonti sul Bosforo, le pianure anatoliche, le lacrime lente degli amori impossibili: le serie turche (dizi nella lingua originale) sono diventate un fenomeno planetario. Tradotte in oltre cinquanta lingue, esportate in più di centocinquanta Paesi, seguite da milioni di spettatori dall’America Latina al Mediterraneo, hanno trasformato un prodotto televisivo in un ponte culturale. Anche in Italia, soprattutto grazie ai canali televisivi privati o alle piattaforme di streaming, sono diventate un appuntamento fisso e familiare. Siti che propongono le varie stagioni per poter dare a tutti la possibilità di seguire le serie, gruppi e fan page Facebook e canali Telegram per discutere sulla vita degli attori. Ma dietro tutto questo successo si nasconde un mondo complesso, fatto di passione, mercato e tante contraddizioni.

Passione nata sul divano

«Ho iniziato a guardare le serie turche in un momento difficile della mia vita», racconta Paola Penna, casalinga napoletana che gestisce la pagina TikTok @paola.serieturche (più di 45mila follower). «Mi trasmettevano speranza. Parlano di amore, famiglia, rinascita: temi universali. E poi gli attori recitano con gli sguardi». Ma ben presto Paola si è trasformata da spettatrice in divulgatrice, diventando un punto di riferimento per centinaia di appassionate (il pubblico è prevalentemente femminile) sparse in tutta Italia e anche all’estero. Organizza dirette, modera discussioni, commenta gossip e nuove uscite. «All’inizio mi sentivo una sprovveduta – confida –, ma oggi ho imparato molto. Alcune follower sono diventate amiche vere». Nel suo gruppo si respira entusiasmo, ma anche qualche eccesso: «Alcune donne si sono lasciate ingannare da finti profili che si spacciavano per attori. C’è chi ha perso migliaia di euro. Io cerco di fare sensibilizzazione: “la finzione non deve diventare dipendenza”». La popolarità delle serie ha dato vita anche a un piccolo turismo tematico. «Molte vorrebbero visitare Istanbul e i set delle serie. Mi sono informata: ci sono agenzie che organizzano tour, ma i costi sono alti. È comunque un mercato in crescita, anche in Russia e Sud America» conclude.

Dietro le quinte 

A raccontare il dietro le quinte è Cem Yiğit Üzümoğlu, attore famoso e membro del Consiglio dell’Unione degli attori turchi:
«Il successo delle serie turche ha molti segreti: la qualità delle musiche, la forza visiva, la capacità di parlare un linguaggio universale. Ma dietro c’è anche un’altra verità: lo sfruttamento».
Ogni set impiega fino a 150 persone, costrette a turni di 14–16 ore per produrre episodi di due ore e mezza ciascuno. «In nessun altro Paese si lavora così – spiega Üzümoğlu –. Non esistono controlli, e la precarietà è la base di questo successo industriale». La Turchia è oggi il secondo esportatore mondiale di serie tv, con oltre 500 milioni di dollari di ricavi e più di 25mila addetti. Ma la qualità, ammonisce l’attore, non può essere misurata solo in termini di esportazioni: «Le pressioni politiche e la censura costringono autori e registi a creare opere sempre più sterili. La libertà creativa è sotto attacco». 

Un altro sguardo arriva da Ayfer Tunç, tra le sceneggiatrici più note del Paese. È sua la penna dietro successi come Binbir Gece (Le mille e una notte) e Terra Amara: «Quando sono andata in Cile a ritirare dei premi – ricorda –, ho conosciuto genitori che avevano chiamato i figli Onur e Şehrazat, come i protagonisti della mia serie. È lì che ho capito quanto fosse grande questo fenomeno». Secondo Tunç, il formato televisivo spiega parte del successo in Italia: «Da noi un episodio dura 150 minuti, ma in Italia viene ridotto a mezz’ora. Così Terra Amara ha raggiunto oltre 600 puntate. Questo crea un legame fortissimo con il pubblico». Le serie turche, aggiunge, offrono allo spettatore un viaggio visivo: «Mostrano la vita all’aperto, le strade, i colori, i suoni delle città. È un modo di conoscere luoghi mai visitati». Da qui nasce anche il turismo televisivo verso Istanbul, in costante crescita negli ultimi anni. Ma la cifra caratteristica di queste serie resta la struttura drammatica: «Nelle nostre storie tutto è vissuto in modo spettacolare: l’amore, la rabbia, la gelosia. Lo spettatore si sente completamente coinvolto». Una formula che conquista soprattutto le aree mediterranee e sudamericane, meno i mercati del Nord Europa o degli Stati Uniti.

Nonostante i numeri giganteschi, Tunç invita alla cautela: «Il sistema non è sano. Scrivo 150 minuti di sceneggiato a settimana, per 35 settimane all’anno. È un ritmo insostenibile: equivale a diciassette anni di lavoro di uno sceneggiatore della BBC». Il modello economico si regge su una logica paradossale: le reti televisive decidono il destino di una serie solo in base all’audience turca. «Se in patria cala l’ascolto, la serie viene chiusa, anche se all’estero guadagna milioni. I canali non considerano i dati internazionali, pur sapendo che i profitti vengono soprattutto da lì». Le piattaforme di streaming, aggiunge Tunç, non rappresentano ancora un’alternativa: «Gli abbonamenti sono pochi, le commissioni troppo alte. Il mercato online in Turchia non è ancora sostenibile». E poi c’è la censura: «Scriviamo sapendo che non possiamo affrontare temi politici o sociali. RTÜK (Consiglio supremo per la radio e la televisione della Turchia), l’autorità di controllo, interviene spesso. La violenza armata passa, ma la critica politica no. L’autocensura ormai è più forte della censura stessa» sintetizza in chiusura la sceneggiatrice.

Violenza di genere

Per la ricercatrice universitaria Ludovica Mia, esperta di serialità turca, uno dei temi chiave per comprendere l’impatto globale delle dizi è la rappresentazione della violenza di genere. «Non esiste una tendenza univoca, né un prima e un dopo. È piuttosto un movimento a onde: in certi periodi si nota maggiore sensibilità, in altri la violenza torna a essere normalizzata. Oggi, con l’arrivo delle piattaforme digitali, il panorama è ancora più frammentato».

Negli anni Duemila, diversi studi hanno attribuito alle serie turche un potere emancipatore, poiché esaltavano figure femminili forti e indipendenti, benché sempre sospese tra tradizione e modernità. Alcune ricerche hanno persino mostrato che, in alcuni Paesi del Nord Africa o del Golfo, queste narrazioni avrebbero incoraggiato alcune donne a denunciare abusi o a chiedere il divorzio da mariti abusanti. Ma già allora, avverte Mia, «non era tutto oro ciò che luccicava»: molte produzioni mostravano infatti violenze impunite, spesso proprio all’interno della famiglia. Un problema grosso. Perché «mostrare continuamente violenze che restano senza punizione finisce per normalizzarle». Uno degli elementi costanti, spiega ancora la studiosa, è la centralità dello spazio domestico come luogo della violenza: «La reazione degli altri personaggi è assente. Nessuno interviene, nessuno si scandalizza. È un dettaglio minimo, ma rivela un atteggiamento collettivo che contribuisce a normalizzare la violenza». Mia cita esempi recenti come Poyraz Karayel, Yürek Çıkmazı e Kalp Yarası, dove la violenza, fisica o psicologica, è ancora un elemento strutturale. Tuttavia, il pubblico internazionale – e in particolare quello italiano – mostra una crescente consapevolezza critica: «Le spettatrici commentano, si indignano, aprono dibattiti. Ciò che scandalizza non è solo la brutalità delle scene, ma anche l’ipocrisia di un sistema che censura un bacio o un bicchiere di vino, mentre mostra senza filtri uno stupro o un’aggressione».

Sul fronte delle piattaforme (che non solo trasmettono ma anche producono le serie turche), la ricercatrice nota un leggero cambio di rotta: «Netflix, rispetto alle emittenti tradizionali, propone una rappresentazione più problematizzata. La violenza viene analizzata in chiave critica e spesso punita anche sul piano narrativo». Serie come Masumlar Apartmanı o Mezarlık, dedicata ai femminicidi, segnano un passo avanti. «Ma non bisogna pensare che le piattaforme siano spazi liberi: esistono ancora vincoli e forme di autocensura. Mezarlık, nonostante il successo, non ha ricevuto alcuna promozione ufficiale: un silenzio che dice molto». Infine, Mia sottolinea come la geografia narrativa delle serie rafforzi alcuni stereotipi regionali: «Molte storie ambientate nel Nord-Est o nel Sud-Est anatolico sfruttano il contesto rurale per rendere la violenza più “accettabile”, come se appartenesse a un mondo arretrato e lontano. È un modo per spostare la responsabilità, per dire che il problema non è la società turca nel suo insieme, ma una sua periferia esotizzata».

Sogni e contraddizioni

Le serie turche affascinano milioni di spettatori, con il loro equilibrio tra sentimento, estetica e moralità familiare. Raccontano amori impossibili e valori tradizionali, ma anche – in controluce – una società in tensione tra modernità e conformismo. Per chi le guarda, come Paola, rappresentano una consolazione e un rituale quotidiano; per chi le scrive e le interpreta, come Tunç e Üzümoğlu, sono il simbolo di un’industria che alterna successo e precarietà. Per chi le studia, come Ludovica Mia, diventano uno specchio che riflette i conflitti culturali e sociali di un Paese sospeso tra libertà e controllo. In ogni caso, tra i set di Istanbul e i salotti italiani, le dizi continuano a costruire un ponte di emozioni, sogni e contraddizioni.

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Data di aggiornamento: 12 Dicembre 2025

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