Litigi tra fratelli
Ammesso che non abbiate un figlio o una figlia unica, i litigi tra fratelli sono una delle esperienze più comuni che vivono i genitori. Alcune ricerche americane segnalano che potrebbero addirittura arrivare fino al numero di cinquanta in un’ora. Sgombriamo subito il campo da un equivoco: i fratelli che si vogliono bene litigano. Il litigio per i bambini è una variabile dell’amicizia. Nessun bambino litiga con gli estranei, ma solo con i coetanei verso cui ha un forte interesse.
Togliamoci dalla testa anche un altro pregiudizio: con la frase «si fanno male» qualcuno persino equipara i litigi alla violenza. Nulla di più sbagliato. I bambini vogliono giocare e il litigio è parte di questo gioco, è parte della relazione. Si tratta di un momento in cui i desideri coincidono ma creano contrasti, un momento dove quello che è tuo vorrei fosse mio, ma la resistenza dell’altro lo rende impossibile.
È un indice di qualità genitoriale avere un buon metodo educativo nella gestione dei litigi tra fratelli. Il peggiore è quello di cercare il colpevole. Come se uno dei comportamenti più normali fosse addirittura una colpa a cui deve corrispondere una pena. Anche l’idea di dare sempre la soluzione, questa forma di interventismo che rende i figli dipendenti dalla presenza dell’adulto, appare infelice.
Ho inventato qualche anno fa un metodo chiamato «Litigare bene» che spinge i bambini, i figli, a parlarsi, a tirar fuori le loro ragioni e a individuare eventualmente un accordo. È un metodo che prevede anche il cosiddetto conflict corner o angolo dei conflitti, ossia un tappetone, un tavolino, un luogo di riferimento dove chiarire i propri punti di vista, quello che è successo ed eventualmente raggiungere una composizione.
Uscire dai vecchi luoghi comuni, rispettare la magia dell’età infantile significa anche avere simpatia per la naturale litigiosità dei figli, aiutandoli a parlarsi e a spiegarsi nei tanti modi possibili, ad esempio con l’uso di foglietti dove disegnare o scrivere la propria versione. Si tratta di pensare all’educazione come a un insieme di tecniche e dispositivi pedagogici, piuttosto che come a una disposizione a urlare, sgridare e punire i figli.