Clima, bene comune
Due sono, negli ultimi tempi, i grandi eventi per il clima degni di nota. Il 21 settembre 2014 oltre un milione di persone, in varie città del mondo, ha marciato in occasione del Climate Summit 2014 Catalyzing Action, convocato dalle Nazioni Unite. Ben più importante il secondo appuntamento: la XXI Conferenza internazionale sui cambiamenti climatici (COP 21), prevista a Parigi dal 30 novembre al 15 dicembre 2015, decisiva per i negoziati sul contenimento del riscaldamento globale. Nel momento in cui scriviamo, ancora non è noto se, a seguito dei tragici fatti del 13 novembre, la Conferenza verrà confermata. Tutto lo lascia presagire, comunque, anche perché si tratta di un evento davvero importante, nel quale la comunità degli Stati è chiamata a decisioni impegnative per far fronte alla minaccia del mutamento del clima, sempre più tangibile, sempre più rilevante, sempre più letale. Sarà il punto di arrivo di una lunga serie di negoziati che mirano a costruire una sorta di alleanza, un insieme di impegni concordati per ridurre le emissioni di gas serra. Solo così sarà possibile contenere l’incremento della temperatura media planetaria entro i 2 gradi (una soglia oltre la quale le conseguenze potrebbero essere drammaticamente imprevedibili). Quali sono gli elementi che accompagnano la riflessione dei delegati delle diverse nazioni? Richiamiamo qualche dato. Alla fine di ottobre 2014 vedeva la luce la versione definitiva del V Rapporto Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change, l’organismo sostenuto dall’Onu che monitora i risultati degli studi climatologici). Nessuna sostanziale novità in esso, ma non è una buona nuova. Il mondo scientifico conferma ancora una volta − con accuratezza maggiore e con una mole di dati più ampia – la realtà di un clima in mutamento veloce. Conferma anche la violenza dell’impatto sulla struttura ecosistemica planetaria e sulle vite di uomini e donne. Già la percepiamo nell’aumentata frequenza di eventi metereologici ad alta intensità – uragani, «bombe d’acqua»… – che colpiscono anche il nostro Paese, con gravi conseguenze sulle persone e sulle cose.
Il 2014 è venuto, del resto, a collocarsi tra gli anni più caldi e anche il 2015 è destinato a inserirsi nello stesso trend. Per molte aree del globo le conseguenze sono già pesanti e potrebbe trattarsi solo delle avvisaglie di dinamiche ben più ampie. La siccità in aree dell’Africa e del Medio Oriente sembra legata al mutamento climatico, così come l’innalzamento del livello dei mari, determinato anche dallo scioglimento delle superfici ghiacciate del pianeta. Lo stesso incremento dei flussi migratori sembra in parte collegato a tale dinamica. Il mutamento climatico si conferma così – con buona pace degli scettici, peraltro sempre meno numerosi – come fattore chiave di una crisi ecologica che tocca profondamente la condizione umana sul pianeta Terra. Né si tratta di un fenomeno riconducibile alle normali dinamiche di fluttuazione naturale; lo stesso Ipcc evidenzia che è all’opera una realtà dalla forte componente antropogenica (legata cioè ai comportamenti umani). L’aumento delle emissioni di gas climalteranti (in primo luogo anidride carbonica e metano) è infatti legato a una forma economica che consuma in quantità sempre più ampie combustibili fossili (petrolio, gas, carbone).
Non stupisce che di fronte a un fenomeno di tale gravità anche nazioni tradizionalmente caratterizzate da un forte consumo di fossili (come Stati Uniti e Cina, i maggiori emettitori, ma anche i Paesi dell’Unione europea) inizino a cercare strade diverse. Il cammino verso la COP 21 è segnato anche dagli impegni che tali soggetti stanno assumendo in vista di un contenimento delle rispettive emissioni. Si inizia a comprendere, insomma, che solo se tutti fanno un passo indietro nello sfruttamento di fonti energetiche dall’impatto insostenibile possiamo sperare in un futuro di stabilità climatica. E tuttavia, probabilmente, non è abbastanza: la comunità scientifica sottolinea come gli impegni assunti ci proiettino ancora oltre la soglia dei 2 gradi, rendendo piuttosto probabile un incremento di almeno 3 gradi alla fine del secolo; occorre rafforzare gli impegni. Un forte richiamo in tal senso è venuto dal position paper presentato lo scorso 7 ottobre dal CepEa (Coordinamento dei Centri per l’Etica Ambientale) nella sala Caduti di Nassirya del Senato: occorre rilanciare la trattativa, con impegni ambiziosi e condivisi. Guardare alla dinamica del riscaldamento globale da un punto di vista etico significa in primo luogo interrogarsi su che cosa possiamo e dobbiamo fare per custodire un futuro minacciato, per le prossime generazioni, ma anche per quella preziosa struttura vitale che è l’ecosistema planetario. È un interrogativo che interessa i comportamenti personali, ma anche le pratiche sociali, così come le linee della politica e dell’economia. Accanto agli approcci della politica e della società civile, si alza anche la voce di parecchi soggetti legati al mondo delle religioni: dal Dalai Lama al patriarca Bartolomeo I al Consiglio Ecumenico delle Chiese (Cec) e al Comece. Numerose le campagne di mobilitazione che interessano anche il mondo cattolico, reso attento alla questione dal forte appello di papa Francesco nell’enciclica Laudato si’. Il Pontefice ha ascoltato con attenzione i dati e gli appelli che gli venivano dalla Pontificia Accademia delle Scienze, così come il grido delle vittime del mutamento in atto e quello della Terra stessa, come recita il n. 2 dell’enciclica. Quest’ultima contiene un’intera sezione dedicata al tema (nn. 23-26), forte e chiara.
Del clima si parla come di un «bene comune» (n. 23) dell’umanità, da custodire; i cambiamenti climatici sono un «problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche, e costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità» (n. 25). D’altra parte, «esiste un consenso scientifico molto consistente che indica che siamo in presenza di un preoccupante riscaldamento del sistema climatico» (n. 23), cui contribuisce in modo significativo l’agire umano. Nitida anche la percezione della gravità delle conseguenze: i mutamenti climatici modificano spazi, ecosistemi e vivibilità, dando origine a «migrazioni di animali e vegetali», ma determinando soprattutto «l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale» (n. 25). Costruire una buona alleanza È chiaro che «gli impatti più pesanti probabilmente ricadranno nei prossimi decenni sui Paesi in via di sviluppo. Molti poveri vivono in luoghi particolarmente colpiti da fenomeni connessi al riscaldamento, e i loro mezzi di sostentamento dipendono fortemente dalle riserve naturali e dai cosiddetti servizi dell’ecosistema, come l’agricoltura, la pesca e le risorse forestali» (n. 25). L’indicazione di papa Francesco è quindi decisa: «è diventato urgente e impellente lo sviluppo di politiche affinché nei prossimi anni l’emissione di anidride carbonica e di altri gas altamente inquinanti si riduca drasticamente, ad esempio, sostituendo i combustibili fossili e sviluppando fonti di energia rinnovabile» (n. 26). A fronte di tali istanze e della loro urgenza, la Laudato si’ rivela insoddisfazione per la lentezza della comunità internazionale nel ricercare accordi per mitigare il fenomeno: «I progressi sono deplorevolmente molto scarsi» (n. 169). Papa Francesco, del resto, seguiva con attenzione lo svolgersi delle relative dinamiche: già un anno fa alla COP 20 aveva indirizzato un messaggio forte ed esigente. Ancor più nitido l’intervento del segretario di Stato, cardinale Parolin, al summit Onu sul clima del settembre 2014 cui facevamo riferimento in apertura: «Gli Stati hanno una responsabilità comune di proteggere il clima mondiale attraverso azioni di mitigazione, di adattamento e di condivisione delle tecnologie e del “know-how”. Ma hanno soprattutto una responsabilità condivisa di proteggere il nostro pianeta e la famiglia umana, assicurando alla generazione presente e a quelle future la possibilità di vivere in un ambiente sicuro e degno». L’appuntamento di Parigi sarà una cartina di tornasole: la comunità internazionale sarà in grado di farsi effettivamente carico della cura della casa comune? Saprà costruire una buona alleanza in grado di custodire la stabilità climatica, in nome dei poveri e delle generazioni future? Saprà ascoltare il gemito di chi è vittima del clima che cambia, il grido della madre Terra, esposta a un cambiamento di così vasta portata?