17° parallelo
Durante l’infanzia sentivo spesso parlare del Vietnam, quasi ogni giorno. La sera mentre si cenava in famiglia, i telegiornali in bianco e nero delle reti RAI trasmettevano notizie e filmati della guerra in Indocina: Nixon, i marines americani, i vietcong, il sentiero di Ho Chi Minh e il 17° parallelo erano entrati nelle nostre case. Facevano parte del nostro quotidiano. Ne hanno parlato per molti anni, fino a quel 30 aprile del 1975, quando i vietcong entrarono a Saigon e gli americani furono costretti ad andarsene in gran fretta. Furono immagini apocalittiche: un elicottero faceva la spola dal tetto dell’edificio che ospitava le rappresentanze diplomatiche degli Stati Uniti, fino alle portaerei ormeggiate nel mare a poche miglia dalla foce del Mekong. Bisognava mettere in salvo gli americani sconfitti dal nemico. La guerra era finita, Davide aveva sconfitto il gigante Golia.
Sulle orme di queste frammentarie immagini sbiadite decisi di partire per il Vietnam. Ero curioso di conoscere il popolo che aveva messo in fuga l’esercito più potente del mondo. Facevo il fotogiornalista da pochi anni, ero ancora molto inesperto. Tuttavia, attratto dai reportage dei colleghi più anziani sulla guerra del Vietnam, desideravo toccare con mano la storia e raccontarla attraverso i miei occhi. Dopo tre giorni di viaggio su un traballante quadrimotore Ilyushin con scali intermedi a Leningrado, Mosca, Tashkent, Karachi, Calcutta e Hanoi, varcai l’uscita dell’aeroporto di Saigon in una notte illuminata da una luna quasi piena. Percepii immediatamente la calura e l’umidità nell’aria. Bastarono pochi minuti per ritrovarmi in un bagno di sudore: ero arrivato in Vietnam.
Il silenzio regnava sovrano. Solo il ronzio di qualche zanzara spezzava l’irreale calma nell’attesa di un taxi. Alle mie spalle, intanto, due uomini in divisa provvedevano a chiudere gli ingressi dell’aeroporto. Aspettai nel parcheggio del terminal l’arrivo di qualche conducente di tassì per quasi un’ora. Poi, zaino in spalla, mi incamminai verso le luci della città poco distante, accompagnato dal frinire dei grilli. Durante questo lento cammino, i battiti del cuore stimolavano e sussurravano pensieri: metro dopo metro calpestavo una piccola porzione della storia recente di questo angolo di mondo. La mente ripercorreva i racconti dei grandi scrittori, le corrispondenze dei maestri del giornalismo, le fotografie dei grandi reporter.
Non avevo progetti precisi in quel viaggio in Indocina. Volevo semplicemente vivere nuove esperienze e scattare tante fotografie. Vivevo alla giornata, tra una gita in barca sul Mekong e un piatto di riso servito negli affollatissimi ristorantini locali. Bevevo acqua di cocco per scacciare l’arsura e osservavo la città seduto ai tavolini dei bar. Erano pochissime le auto in circolazione, centinaia di migliaia invece le biciclette. Ovunque, come sciami di api impazzite, sfrecciavano le due ruote a cui il tempo aveva cancellato il luccichio. Manubri che si sfioravano, ma non si piegavano mai. Rumori stonati di copertoni su asfalti consumati. Passavano vicini. Bastava alzare lo sguardo. Tornavano a scintillare i nuovi raggi delle biciclette in corsa, ma solo per l’istante di una fotografia che non esiste più.
(Nella foto: Huè, Vietnam 1989)
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