La rivolta di Bonegilla
Ancora oggi il nome Bonegilla ispira racconti, ricordi e impressioni vivide, talvolta discordanti, in chi ci è passato. La località del Victoria al confine con il New South Wales è nota perché ha ospitato il più grande e longevo campo di accoglienza di migranti in Australia, attivo tra il 1947 e il 1971. Oltre 300 mila persone di 41 nazionalità passarono per le sue baracche in lamiera, prima di iniziare una nuova vita. Il Bonegilla Migrant Reception and Training Centre accolse inizialmente i rifugiati dell’IRO, l’International Refugee Organisation (tra cui gli italiani dell’Istria) e poi coloro che usufruirono del programma governativo di immigrazione assistita e che dovevano «ripopolare» il Paese e dargli una nuova spinta economica. «Bonegilla è stata un’impresa incredibile per il governo di Canberra», spiega l’ex direttrice dell’Italian Historical Society di Melbourne, Laura Mecca. Fu il primo nel suo genere e diede il via alla creazione di strutture simili in tutto il territorio. I giovani uomini e le famiglie che arrivavano al centro ricevevano vitto, alloggio, lezioni d’inglese e assistenza nel trovare un impiego.
Ma non mancavano di certo le difficoltà: Bonegilla era un luogo poco ospitale e molto isolato, raggiungibile dopo un viaggio di tre ore in treno da Melbourne. Gli emigrati si ritrovavano «in mezzo al nulla, con estati caldissime e inverni rigidi, e bisognava camminare un’ora e mezza per arrivare ai negozi di Albury», il paese più vicino. Una scelta, quella del luogo, forse non così casuale, quasi a voler tenere a distanza gli stranieri che venivano guardati con sospetto dal resto della popolazione, per timore di affiliazioni comuniste e fasciste. Le condizioni di vita, specie all’inizio, erano tutt’altro che «accoglienti» nonostante la propaganda governativa: il campo continuava ad avere una forte impronta militare, e per diverso tempo le famiglie vennero divise. Logorati dalla situazione precaria, nel 1952, esattamente settant’anni fa, gli italiani si resero protagonisti di quella che è passata alla storia come «Spaghetti riot»: la rivolta degli spaghetti. A dispetto del nome, puntualizza Mecca, «il malcontento era nato soprattutto perché non c’era lavoro a causa della crisi economica che stava colpendo tutto il Paese, australiani inclusi».
L’ozio forzato e la delusione delle aspettative avevano scatenato la rabbia di «questi giovani che spesso prendevano in prestito soldi dalle famiglie o avevano lasciato un lavoro specializzato per l’Australia. Poi, però, arrivavano a Bonegilla dove non c’era nulla, e dovevano iniziare tutto daccapo. Sicuramente un’altra aggravante è stata il cibo: gli italiani non erano abituati a mangiare montone». I pasti serviti nelle mense comuni erano scadenti e poco vari, e c’era il divieto di prepararsi un pasto da sé. Un rapporto redatto dal direttore del campo descrisse «l’attacco» di un folto gruppo di emigrati italiani e jugoslavi che lanciarono piatti di cibo sulle pareti. L’esercito intervenne a sedare la rivolta. Ma le richieste degli emigranti furono ascoltate e alcuni di loro vennero assunti in cucina, riuscendo a ottenere prodotti come pasta, olio e pesce. Con il passare del tempo e la creazione di ostelli urbani, venne meno la necessità di Bonegilla di cui oggi rimane un gruppo di baracche in lamiera visitabili: il «Block 19».
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