12 Agosto 2022

L’erede di Marco Polo

Fotografo e guida ai confini del mondo, Gianluca Pardelli esplora, per passione e professione, gli angoli più remoti del pianeta. Ha accompagnato in Africa sua nonna Lia che sognava di vedere i gorilla.
Pardelli

© Gianluca Pardelli

«Ho appena lasciato il Tagikistan. Devo recarmi a Kabul. Il soldato più anziano tra quelli di frontiera si offre, per pochi dollari, di darmi un passaggio verso la cittadina più vicina, sul suo quad nuovo fiammante: una di quelle moto a quattro ruote, regalo dell’esercito americano. Con le braccia strette attorno alla sua pancia, guardo scorrere paesaggi di montagne impervie e villaggi senza tempo. Nel bazar della cittadina, il soldato mi trova un posto su un taxi condiviso diretto a Faizabad, la capitale regionale. In auto ci sono l’autista e altri quattro uomini con cui mi è impossibile comunicare. L’unico a parlare russo e inglese non è neanche da prendere in considerazione. Il viaggio dovrebbe durare cinque ore. Ce ne vogliono otto. Tra gli imprevisti: andiamo in panne in mezzo a un fiume in secca, e arriviamo in un villaggio che sembra essere uscito da un racconto di Marco Polo, dove veniamo bloccati da un gruppo di uomini armati che ci pregano di dare un passaggio a un vecchio signore con febbre e convulsioni. Schiacciato tra gli altri passeggeri, vestito con abiti del luogo, cerco di mimetizzarmi al meglio. Evito, con reverenziale timore, di attirare attenzioni su di me. Ma otto ore sono lunghe e, con il senno di poi, per fortuna, mi trovo costretto a dover dialogare con gesti e sorrisi. Due pagine non bastano per descrivere il ricettacolo di emozioni, storie, ricordi e parole che ancora brillano vividi nella mia memoria. Una volta a Faizabad, nel letto della pensione che mi ospita, comincio a pensare a come posso proseguire il viaggio verso Kabul, ma mentre chiudo gli occhi, capisco che ormai ce l’ho fatta. Ho raggiunto l’Afghanistan».

A raccontare una delle sue avventure è Gianluca Pardelli, classe 1988, livornese, ma di base a Berlino, in Germania. Da dieci anni viaggia nei Paesi meno inflazionati del mondo: tanta Asia, dal Turkmenistan alla Corea del Nord, ma non solo. Ogni tanto c’è anche un po’ di Africa ed Europa. Lo fa con una doppia veste: la prima, quella di fotogiornalista, per cui ha frequentato un master in Fotogiornalismo e documentario alla University of the Arts di Londra. I suoi scatti sono stati usati da prestigiose testate internazionali, tra le quali «The Guardian» che pubblicò un suo reportage sulle repubbliche non riconosciute dell’ex Urss. La sua seconda veste è quella di tour operator: ogni tanto accompagnatore, a volte organizzatore da remoto, sia attraverso il «National Geographic» che con la sua agenzia, la Soviet Tours (www.soviettours.com).

Terre lontane

Gianluca Pardelli è un tour operator davvero sui generis. «Tra le cose più originali a cui ho lavorato, ci sono un viaggio per alcuni clienti svizzeri nella Tofalaria, regione remota della Siberia abitata dai tofalari, un popolo turco-mongolo; e un soggiorno a Mogadiscio, in Somalia, per un gruppo di radioamatori italiani. Abbiamo anche compiuto un tour in Afghanistan, meta in cui sono stato più volte, e finito pochi giorni prima della presa del potere da parte dei talebani. Ma invio anche persone nelle zone sicure della Siria. Ho provato personalmente tutti i tour. Sul luogo ci sono sempre guide locali. Al primo posto c’è la sicurezza del cliente». 

L’attualità si lega a doppio filo con l’attività di Pardelli. L’invasione russa dell’Ucraina ha condizionato il suo lavoro: «Sono due Paesi al centro di tanti viaggi di Soviet Tours. Abbiamo tante guide in pericolo o che lo sono state: una situazione infernale davanti alla quale siamo impotenti. I tour si sono quasi completamente fermati, mentre tanti Paesi limitrofi hanno registrato un sensibile calo di richieste. Abbiamo sospeso i tour verso regioni calde come Transnistria, Ossezia del Sud, Calmucchia, Repubblica dell’Altai, Karakalpakstan, Gagauzia, Nakhchivan e Caucaso del Nord, mentre continuiamo a organizzarne altrove, soprattutto nella zona del Caucaso, in Armenia, Georgia e Azerbaigian, Paesi stupendi per paesaggi, cultura, cibo, diversità: i primi che consiglio a chi vuole cominciare a conoscere i Paesi dell’ex blocco sovietico. Spesso, poiché ci fu un’unione politica, si pensa che l’ex Urss fosse un unico Paese e che, per quanto disgregato, sia in qualche modo ancora oggi abbastanza omogeneo. E invece è un crogiuolo di etnie, dialetti, se non lingue, cucine e storie completamente differenti. La loro diversità va non solo preservata, ma anche conosciuta. È un mondo straordinariamente interessante in cui io sono rimasto – e ne sono felice – coinvolto».

Pardelli è la dimostrazione che si può trasformare una passione in un lavoro. «Ho sempre cercato di viaggiare tantissimo in Asia, in Medio Oriente, in Africa e nell’ex Unione sovietica; in qualsiasi maniera, risparmiando su tutto pur di vedere un posto in più. Fin da giovane sono stato affascinato dai Paesi slavi, e così dopo il liceo mi sono iscritto all’Università di Udine, a Lingue slave; stesso corso che poi ho seguito anche nella specialistica all’Università Humboldt di Berlino. Leggere, studiare, guardare e ascoltare sono attività fondamentali per ampliare la nostra conoscenza, ma il viaggio è quella che più ci mostra l’essenza dei luoghi e di chi li abita. Meno sono inflazionati, e più sono potenzialmente genuini. E così, ovunque andassi, già all’epoca mi portavo dietro la macchina fotografica. Ho cominciato a vendere i primi scatti, originali, spesso da luoghi in cui nessun fotografo, o quasi, era mai stato prima. Inutile dire che negli spostamenti, e nel poter creare alcune situazioni, mi ha sempre avvantaggiato il saper parlare bene inglese, tedesco e russo; decentemente spagnolo e francese, e, a livelli di sopravvivenza, arabo, olandese e serbo. Un iter simile è stato quello che mi ha portato a diventare operatore turistico per mete insolite: viaggiare in luoghi remoti mi ha spinto a impegnarmi a farli conoscere anche ad altri».

Tutta colpa di Cechov

L’amore per i Paesi slavi nacque quasi per caso quando Pardelli era bambino. «Avevo 8 anni – ricorda –. Mio padre mi portò in una libreria e mi disse: “Adesso sei libero di scegliere il tuo primo libro da adulto”. Fino a quel momento avevo letto solo cose per ragazzi. Il mio occhio, davvero per caso, cadde su La steppa di Anton Cechov. In copertina c’era una carrozza trainata da alcuni cavalli e con sopra un bambino. “Sei sicuro che sia per te?”, mi chiese papà. Non lo era, ma il fatto che mio padre mettesse in dubbio la mia scelta, fece sì che io mi impuntassi. E non solo gli feci comprare quel libro, ma lo lessi abbastanza velocemente, scoprendo che parlava di un bambino di 8 anni, proprio come me, mandato dalla madre a fare il liceo in una grande città. Da lì cominciò il mio amore per la lettura, soprattutto per i racconti di Cechov, e mi appassionai anche ad altri autori tra i quali spiccava Tolstoj. E iniziò una fascinazione che mi portò poi a studiare russo, privatamente, negli anni del liceo, e poi alla scelta del percorso universitario. Insomma, tutto, compresi i miei viaggi, sono nati in quella libreria». Ogni grande viaggiatore ha una propria definizione di viaggio. Per Pardelli il viaggio è «parte integrante e spesso imprescindibile di quel processo quotidiano che ognuno di noi sceglie a favore della ricerca della verità sociale, politica, culturale e storica che ha intorno a sé. Solo conoscendo le realtà straniere si può comprendere la narrazione di ciò che ci circonda».

In Africa con nonna Lia

«Sono stato in più di 90 Paesi del mondo, dall’Angola all’Eritrea passando per Burkina Faso, Turkmenistan, Transnistria, Iraq, Ossezia e Benin – rammenta Pardelli –. Una volta, nel febbraio del 2014, ho portato mia nonna, Lia Cirillini, all’epoca 86enne, sui monti Virunga, tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo, per esaudire un sogno che lei aveva fin da bambina: vedere i gorilla nel loro habitat naturale. Fummo impegnati in ore di scalate, anche se parte del tragitto nonna lo fece sulle portantine sorrette da ragazzi del luogo. Mangiammo cibo locale, stufati di carne, pesce fritto del lago di Kiwu, uno dei più grandi dell’Africa; polenta con farina di manioca e anche un po’ di cibo della tradizione belga, visto il passato coloniale dell’area. Proprio per questa ragione, lì qualcuno parla ancora francese, e mia nonna è riuscita a comunicare con alcuni dei locali. Lei che a livello professionale, oltre a lavorare come bibliotecaria e nel settore amministrativo, si era tolta tante soddisfazioni – soprattutto in politica, tanto da diventare assessora alla cultura a Livorno – era rimasta una donna molto pragmatica e spartana. Abbiamo dormito in tenda senza problemi. Anzi un problema ci fu, almeno all’inizio: mia nonna amava leggere, soprattutto prima di dormire. Ma si era dimenticata di portarsi un libro. Finì che, almeno quando passammo alcune notti in hotel, imparò a usare il mio computer solo per vedersi i film in streaming. Il giorno più bello fu quando finalmente incontrammo i gorilla e, lentamente, come negli slow motion di un film, le si è aperto un sorriso enorme che da solo ha illuminato lo spazio circostante, anche se c’era già il sole. Portarla con me, fu un modo per ripagare un viaggio che lei mi fece fare quando ero adolescente. Lei è sempre stata una viaggiatrice. Circa dieci anni prima, eravamo andati insieme nel Sahara, altro suo vecchio sogno per cui aveva avuto bisogno di un accompagnatore. E per cui scelse il suo nipotino, instillandogli la voglia di viaggiare». La nonna di Gianluca è morta un anno dopo il viaggio in Africa: «Quell’avventura è stata oggetto di tante nostre chiacchierate nei mesi successivi: il colpo di coda di una vita già straordinaria, e per me l’occasione di conservare uno scrigno di ricordi che mi accompagneranno per sempre».

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Data di aggiornamento: 24 Agosto 2022
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