8 marzo, festa della donna tra luci e ombre
Ogni anno in concomitanza con l’8 marzo, data della festa della donna, viene spontaneo chiedersi quale sia oggi la condizione femminile. E volgendo uno sguardo al mondo nel suo complesso non mancano i motivi sia di soddisfazione che di rammarico. Se nei Paesi cosiddetti civilizzati è in notevole aumento il numero delle donne che hanno raggiunto incarichi di prestigio e responsabilità nella politica, nell’economia, nelle scienze, dall’altro in interi continenti sono ancora in atto leggi discriminatorie che le relegano alla completa dipendenza, non solo economica, dal padre prima e dal marito poi.
Per non parlare delle violenze perpetrate nei loro confronti, che vanno da quelle fisiche e psicologiche, alle mutilazioni genitali, alla tratta e agli stupri di guerra o punitivi. Che cosa succede in casa nostra, soprattutto per quel che concerne le violenze nell’ambito familiare che possono avere come esito drammatico il femminicidio a opera del marito o del compagno, attuale o ex? I giornali ne danno sovente terrificanti notizie, ma preferisco fare riferimento alle fredde e impersonali statistiche fornite dall’Istat.
I dati, naturalmente, non sono molto aggiornati, tanto che gli ultimi si riferiscono al 2014, ma tant’è. Ciò che emerge in modo significativo è che la violenza contro le donne è un fenomeno ancora ampio e diffuso. Sono 6 milioni 788 mila le donne che hanno subito, nel corso della propria vita, una qualche forma di violenza fisica o sessuale, ma ciò che più impressiona è che le violenze più gravi, tra cui gli stupri, sono commesse dai partner.
A nostra consolazione, i ricercatori ci dicono, però, che stanno emergendo anche importanti segnali di miglioramento rispetto alle indagini precedenti, in quanto negli ultimi cinque anni le violenze fisiche o sessuali sono passate dal 13,3 per cento all’11,3 per cento. Ciò sarebbe il frutto «di una maggiore informazione, del lavoro sul campo, ma soprattutto di una migliore capacità delle donne di prevenire e combattere il fenomeno, e di un clima sociale di maggiore condanna della violenza».
A questo punto può essere interessante fare riferimento ad alcune ricerche psicologiche che hanno analizzato l’emergere di comportamenti aggressivi nelle prime esperienze sentimentali durante l’adolescenza. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Firenze, con un’indagine condotta per tre anni su un ampio campione di adolescenti, ha cercato di individuare sia la stabilità o meno del comportamento aggressivo tra pari, sia se la presenza cronica di aggressività dell’individuo si correli in modo significativo con l’assunzione di comportamenti aggressivi nella relazione sentimentale.
Ebbene, i risultati sono particolarmente eloquenti. Da una parte si rileva continuità e cronicità dei comportamenti aggressivi che tendono a perdurare nei tre anni presi in considerazione; dall’altra i soggetti che presentano livelli più elevati di aggressività con i pari, in particolare si comportano da bulli in ambito scolastico, sono anche quelli che esibiscono con maggiore frequenza comportamenti aggressivi anche con la partner, comportamenti che spesso assumono il carattere di molestie sessuali.
Ben vengano dunque tutte le provvidenze messe in atto per combattere la violenza contro le donne: incoraggiare la denuncia, potenziare l’assistenza sia psicologica che pratica, dare protezione economica e un rifugio sicuro alle vittime. Ma ricordiamoci che l’origine del fenomeno viene da lontano, affonda negli abissi di una cultura che ha considerato, per secoli, il potere e la dominanza diritti della mascolinità. L’unica profilassi possibile resta quella di fare della cultura della non violenza una piattaforma di studio, di riflessione, di azione, a partire dalle scuole per l’infanzia.