Al cuore della democrazia
Spegne quest’anno le sue prime 50 candeline (quella di Trieste è infatti la sua cinquantesima edizione, anche se è nata nel 1907) e per l’occasione ha pure deciso di cambiare nome: non più Settimana sociale dei cattolici italiani, ma dei cattolici in Italia, con una sfumatura che, in realtà, è tutta sostanza. A ospitarla, dal 3 al 7 luglio, è la città di Trieste, città di confine, spesso dimenticata, eppure di sovente protagonista di movimenti che hanno segnato il dibattito culturale e sociale italiano anche recente (una su tutte: l’iniziativa delle Parole O_Stili, lanciata a Trieste nel febbraio del 2017).
Dopo Taranto, nel 2021, dove si è riflettuto su «Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. #tuttoèconnesso», in questa edizione al centro del dibattito c’è il tema «Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro». I delegati (da tutta Italia) sono dunque chiamati a «riflettere sullo stato di salute della nostra democrazia dal punto di vista della partecipazione attiva dei cittadini e a elaborare visioni e proposte concrete». Un’occasione «speciale perché la partecipazione non è solo un tema di cui discutere, è soprattutto un modo di lavorare insieme, sperimentando metodi che valorizzino la voce di tutti». Abbiamo chiesto al professor Giovanni Grandi, ordinario di Filosofia morale all’Università di Trieste, e membro del Comitato preparatore di questa edizione della Settimana, di aiutarci a entrare nel vivo dei lavori.
Msa. Professor Grandi, questa 50esima edizione della Settimana sociale si propone di andare «Al cuore della democrazia». Ma che cosa c’è al cuore della democrazia?
Grandi. Al cuore della democrazia c’è innanzitutto la partecipazione, cioè la possibilità che tutte le persone che vivono i territori possano esprimere il loro pensiero sul futuro politico della Città. Anche l’aver cambiato il nome in Settimana dei cattolici in Italia sottolinea questa idea: quelli che risiedono in un territorio, che lo vivono attraverso mestieri, professioni, vite familiari, lo conoscono e hanno quindi la competenza civile, che possiamo definire anche politica, per dire quali sono i suoi bisogni e le sue risorse. È però importante riuscire a mettere a sistema tutte queste informazioni, soprattutto i desideri e le proposte che emergono, e per questo serve la partecipazione, che significa riallargare la base di protagonismo delle persone, anche provando a coordinare le loro indicazioni. La folla non è un coro, e quindi bisogna riuscire a mettere in campo metodologie e modalità che consentano un ascolto tra le persone e anche di arrivare a delle indicazioni prioritarie che siano condivise. Questo movimento è il cuore della democrazia per come l’abbiamo voluto proporre in questa Settimana.
Per quali motivi, a suo avviso, la partecipazione oggi sta attraversando una crisi così profonda? Sembra quasi sia venuta meno la speranza…
La partecipazione è fatta di due ingredienti. Il primo, quello più elementare, è la messa in comune di risorse tra persone. Il secondo, quello più prezioso, è il fatto che da questo scambio, da questa circolazione di risorse nascono dei legami. A livello civile, questi legami li chiamiamo «coesione sociale». Questo significa che noi, mettendo in comune risorse – questa è anche l’immagine del cosiddetto «bene comune» –, non soltanto misuriamo la vita di ciascuno pure nella reciprocità degli aiuti, ma creiamo anche un tessuto comunitario. Questi due ingredienti sono fondamentali entrambi, ma la coesione sociale è quella che noi vediamo essere in crisi oggi. Cioè: esistono tante iniziative, magari anche tante battaglie di rivendicazione o proposte, che però sono molto legate solo a specifici gruppi. Facciamo più fatica a contribuire a livello civile per qualche cosa che sia veramente per tutti e per tutte. Questo è il punto nodale, a nostro avviso. Quindi dobbiamo capire come aiutare i territori a riconnettersi sia elaborando delle politiche di respiro per il sistema Paese, sia riuscendo a ridare spazio – e qui entra in gioco la speranza che lei evocava – all’idea che «vale la pena» di contribuire allo sviluppo di tutto il Paese. Su questo specifico aspetto, a partire dalla Settimana di Trieste vogliamo provare a portare a casa qualche piccolo risultato di rete, di sistema, di idee, di politiche.
Nella Settimana verranno indagati i benefici della partecipazione, ma anche le fatiche.
Abbiamo chiuso da qualche settimana lo studio dei percorsi preparatori, che sono un’altra novità dell’edizione di quest’anno. A essi ha contribuito un centinaio di gruppi (più o meno 1.600 persone) da tutta Italia. E quello che questi gruppi ci hanno trasmesso sono alcune macro fatiche. La prima, cui abbiamo già accennato, è la fatica di coesione, vale a dire di ascoltarsi e accogliersi reciprocamente (queste sono le voci prioritarie). Poi la fatica di riuscire a coordinarsi e, ancora di più, di fare sinergia e sintesi. La terza fatica che mi pare importante sottolineare, perché emerge in maniera molto forte, è la carenza di tempo, perché i processi partecipativi richiedono tempo. Questo è un elemento molto interessante, perché ci pone un grande interrogativo sui nostri stili di vita, sugli stili di vita della nostra democrazia contemporanea. Vite troppo piene diventano vite frettolose, e le vite frettolose non hanno spazi di accoglienza né di ascolto e questo incide negativamente ancora una volta sulla coesione sociale. Sono dei macro nessi che vanno esplorati meglio, certo, ma rappresentano comunque delle indicazioni importanti.
Come si è giunti alla scelta di questo tema?
Sicuramente c’è un fattore contingente, che è la lettura della crisi di partecipazione al voto. Ormai siamo giunti al 50% di elettori che si recano alle urne e questo è un sintomo preoccupante, che ancora una volta è riconducibile alla mancanza di una coesione sociale: se non mi sento comunità, diventa meno rilevante partecipare anche alle scelte che riguardano il suo governo. Scendendo poi più in profondità, ci siamo interrogati anche sul fatto che l’Italia ormai da vent’anni è attestata su una percentuale del 10% di persone impegnate nel volontariato. Una percentuale molto bassa – seppur efficacissima, visto che il nostro Paese vive tantissimo di questa forma di supporto tra le persone –, che ci dice anche che una qualche deriva di tipo individualista c’è ed è abbastanza rilevante. E poi, naturalmente, c’è un altro fattore ancora: la linea storica. Le Settimane sociali sono arrivate alla cinquantesima edizione, abbiamo superato i cento anni, essendo partiti nel 1907, però fare il punto sullo stato di salute della democrazia ci pareva doveroso. Dopo tante edizioni dedicate anche a temi molto più particolari o più «teorici», come il bene comune, questa volta volevamo lavorare sulle tante sfaccettature che riguardano gli infiniti modi con cui possiamo prenderci cura della democrazia, con un approccio che fosse capace di rovesciare addirittura la metodologia, dando la possibilità ai delegati e a tutti i partecipanti di portare la loro competenza specifica.
Mi ha colpito il titolo di un capitolo del Documento preparatorio, che afferma che «la democrazia, prima ancora di essere una forma di governo è la forma di un desiderio profondamente umano».
Questa espressione, che deriva da Jacques Maritain, ricorda che il tema dello stare insieme volentieri è emerso più volte nel pensiero cristiano. E quindi non è solo una questione di come ci organizziamo, ma di un modo di vivere dando protagonismo, riconoscendo tutte le persone. Questo modo di vivere, che detto così sembra molto bello e pure un po’ romantico per certi aspetti, porta con sé anche delle conseguenze di altro tipo e cioè il fatto che dobbiamo provare a sentirci tutti e tutte un po’ meno protagonisti e un po’ più gregari, che è una cosa forse non così facile da fare. Però fa parte del voler stare insieme agli altri. E io sto volentieri insieme agli altri se smetto di pensare che devo essere protagonista di un processo, che ho sempre le idee migliori, che ho sempre le proposte più efficaci. Soltanto allora, con questa manovra che potremmo definire di decentramento, la democrazia vive davvero e impariamo a stare insieme volentieri, gustando la bellezza della coralità. Dobbiamo quindi essere consapevoli che questa forma di vita così affascinante comporta impegno e fatica, anche se i frutti positivi alla fine sono assicurati.
In che modo la Settimana si inserisce nel cammino del Sinodo che ci condurrà al Giubileo?
Cercheremo sostanzialmente di raccordare la grande esperienza che stiamo facendo a livello ecclesiale alle necessità che emergono dalla società civile. In fin dei conti la sinodalità è il nome ecclesiale di quella che è la partecipazione nella democrazia. La democrazia non è soltanto una questione di sistema di voto, di rappresentatività ma, come dice bene la radice greca del termine, è il potere del popolo. Allora, il fatto di potersi raccogliere e capire come riusciamo a utilizzare al meglio questo potere diffuso e che è di tutti, per il bene comune, è la sfida per la democrazia: in questo senso i cammini sinodali ci insegnano che si può raggiungere un accordo e un’unanimità passando attraverso la condivisione, attraverso dei processi ben elaborati, che non sempre richiedono un voto, non sempre richiedono di dividersi tra maggioranza e minoranza, ma invece possono comportare un grande lavoro di concerto. In tal modo la Settimana sociale diventa un ponte metodologico e anche, per così dire, di amicizia, tra una dimensione ecclesiale e quello che sta sperimentando, e una dimensione civile.
Come in ogni edizione che l’ha preceduta, pure in questa Settimana triestina ci sarà uno spazio per far conoscere le «buone pratiche».
Anche in questo caso c’è una diversità rispetto alle edizioni precedenti. Le buone pratiche non sono presentate soltanto ai delegati, bensì a tutta la città. Ci saranno numerosi stand per le vie di Trieste, dei «villaggi della democrazia», nei quali si svolgeranno anche conferenze e dibattiti aperti. È proprio un altro schema di lavoro rispetto al passato, che speriamo venga apprezzato dai partecipanti. Per quanto riguarda le pratiche, posso dire che andremo da pratiche agite da associazioni che si occupano di disegnare le prospettive delle persone che vivono in carcere a quelle di associazioni che facilitano i percorsi di inclusione di persone immigrate o in transito. La cosa significativa, a mio avviso, è che il normale lavoro delle associazioni diventerà, attraverso la conoscenza e la partecipazione, patrimonio di tutti. Un’iniziativa molto bella, per esempio, riguarderà un progetto che presenteremo, che è stato fatto nelle scuole di Trieste: sono stati coinvolti migliaia di ragazzi nel costruire insieme un’immensa tovaglia, simbolo della possibilità di una mensa condivisa, portando dei pezzi di stoffa che arrivavano dalla storia delle loro famiglie. Questo tipo di laboratorio sarà riproposto anche negli stand della Settimana, proprio per far sperimentare a tutti alcune pratiche belle, innovative e suggestive.
Trieste, città di confine, è stata a lungo considerata anche città periferica. Il protagonismo delle periferie può far parte di un cammino verso la democrazia?
Il protagonismo delle periferie è anche spesso il protagonismo dei luoghi della diversità e dei luoghi feriti. Perché una frontiera come quella orientale ha ancora dei luoghi simbolo di sofferenza, ma ha anche una sapienza del come stare su questi territori che hanno diviso e che ora riescono a unire. Il valore della storia vissuta, anche delle sofferenze patite, diventa capacità di creare coesione e unità. Allora in questo senso anche la scelta della frontiera si inserisce in quella grande intuizione per cui partecipare è creare coesione. Abitare in periferia non vuol dire abitare alla fine del mondo, ma essere al centro di un mondo più ampio che ha bisogno di coesione, ha bisogno di superare barriere. Anche questo è un grande messaggio che giunge da questa Settimana.
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