Antonio, ricordi lontani
Sto scrivendo oggi, ed è proprio il 13 giugno: festa di sant’Antonio e mio onomastico. Sono sempre stata molto orgogliosa di questa «fortuna», come diceva nonna Virginia, devotissima di san Giovanni Bosco, di cui cercava di trasmettere il culto a noi nipoti. Ricordo con un filo di nostalgia – e di ironia – le sue predichette a Belluno, con tutti noi seduti intorno a lei nella Piazza grande, davanti alla famosa pasticceria Deon: se volevamo i mitici cannoli alla crema dovevamo prima ascoltarla... Ma per me faceva un’eccezione, perché – nella sua personale gerarchia dei santi – Antonio stava al di sopra del suo amato Giovanni Bosco: c’erano chiese e statue dedicate a lui dappertutto e il mondo intero lo conosceva. E dunque mi permetteva – unica tra gli undici nipoti – di seguire una diversa graduatoria.
D’altronde questo a me piaceva moltissimo. E quanto mi piaceva il 13 giugno vedere la città tutta vuota, tranne nel quartiere del Santo; assistere al lento risalire dei pellegrini dalle stradine che portano al centro della città, e il loro fluire attraverso i portici antichi verso lo slargo della piazza della Basilica; andare a guardare i banchetti delle venditrici di ricordini, rosari, statuine, disposti a semicerchio intorno al sagrato, che gareggiavano tra loro in colori vivaci e persuasivi inviti. I negozi erano chiusi, tranne quelli del quartiere; e la stretta via del Santo era imbandierata a festa. Arrivavano i gruppi, chiamandosi l’un l’altro per non perdersi nella folla; arrivavano gli zingari nei loro colorati costumi, con le belle donne dalle gonne svolazzanti e i capelli scintillanti al sole; e in mezzo alla folla spiccavano con aria compunta i bambini in saio marrone e le bambine vestite da suora, le cui madri avevano votato al Santo per ottenere grazie e guarigioni.
Oggi ripenso a quei giorni felici, e mi compaiono davanti vividi come un cammeo colorato, un fermo-immagine che però evoca memorie movimentate che coinvolgono tutti i sensi. Anche il profumo di giugno: la paulonia in fiore. Si impone intensissimo, vedo i suoi calici violetti e morbidi al tatto, delicati, aprirsi sul tronco oscuro sopra le foglie giovani, coprendo l’albero intero di una immensa nuvola viola. E rivedo all’improvviso il malandato stendardo colorato con al centro un imponente Antonio in viola, riposto chissà quando in un angolo della soffitta di nonno Yerwant, che ritrovai tanti anni fa, quando tornammo ad abitare nella sua vecchia casa. Molto era andato perduto con la guerra, molto era stato disperso, tranne qualche reliquia finita e dimenticata in soffitta, insieme a pile di vecchi vasi da fiori.
Mi domandai allora quando, e come, quello stendardo arrugginito fosse stato portato in giro orgogliosamente dal mio nonno orientale che amava le fastose vesti rituali del cristianesimo armeno, ma – diventato italiano nel 1906 – aveva abbracciato con eguale entusiasmo la meravigliosa realtà delle liturgie antoniane. Lui mi aveva portato per la prima volta a 5 anni a conoscere il mio protettore, mi aveva condotto davanti alla tomba, preso la mia mano nella sua e le aveva posate insieme sulla scura lastra di marmo, in mezzo alla grande folla di quel lontano 13 giugno. Ma perché Antonio indossava invece del saio una tunica viola, e perché non teneva in braccio né il Bambino né il giglio, ma brandiva soltanto il Libro nella mano sinistra sollevata, mentre con la destra accennava una solenne benedizione? Sembrava un santo orientale, eppure sotto campeggiava in oro la scritta «Antonio di Padova». E improvvisamente capii, dopo tanti anni, che così l’aveva voluto proprio il nonno, che amava la sua nuova patria ma non poteva e non voleva dimenticare quella lontana e perduta.
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