In ascolto dell'umanità

La penitenzieria è «casa dell’accoglienza», il luogo in cui si sperimenta l’abbraccio forte e tenero del Padre che perdona il figlio pentito.
15 Marzo 2022 | di

«Chi viene qui porta tutto il suo carico di sofferenza, un fardello di ferite antiche e nuove, di dolore profondo mai completamente compreso e curato, ma soprattutto di solitudine, smisurata, lancinante. Chi viene qui ci affida tutto se stesso. E a chi come me ha il compito dell’ascolto non resta che “abbracciare” tutte queste storie, fatte di mondi e umanità differenti, facendo sentire chi le porta, anche se per pochi minuti, “a casa”».

A dirlo è fra Maurizio Stedile, 87 anni compiuti lo scorso settembre, uno dei frati che si alternano nella penitenzieria della Basilica del Santo. Dopo la tomba del Santo e la Cappella delle Reliquie, la penitenzieria è uno dei luoghi più frequentati e amati. È un posto fisico – vi si accede dal chiostro dalla Magnolia – dove la gente si ferma e, attraverso i frati, stringe e rinsalda il proprio legame con sant’Antonio. Ed è un luogo dell’anima, dove arrivano a migliaia e dove spesso si ritorna.

Per aprire la mente e il cuore, per essere ascoltati, per cercare conforto e attenzione, per continuare a tenere vivo quel rapporto unico e straordinario con un Santo che amava dire e ridire che il sacramento della Penitenza è «casa di Dio» e la penitenzieria è «casa dell’accoglienza».

«Quella in confessionale è una missione a cui mi dedico da oltre sessant’anni – racconta fra Maurizio –. Non mi sono mai fermato, non mi è mai pesato farlo, è la mia vita». Il frate è nato in Trentino, in un piccolo paese nell’altipiano di Folgaria. Anche la montagna, in fondo, ha fatto la sua parte nell’abituarlo al silenzio, all’ascolto, all’accogliere la bellezza che sta ovunque, nelle alte cime come negli angoli più nascosti e impensati.

Così accade in fondo anche per l’animo umano. «Il paese dove sono nato e cresciuto si trova a ottocento metri, ma da lì si può arrivare fino alle cime più alte – racconta fra Maurizio –. Non sono uno psicologo, non ho mai studiato per diventarlo e il sacramento della Riconciliazione non è una seduta di psicoanalisi. Ho conosciuto fra Guido Masnovo, un maestro in questo campo. Da lui ho imparato che la prima buona “arma” per arrivare all’altro è l’ascolto.

È stato grazie all’esperienza quotidiana, esercitata sempre con grande rispetto per chi arriva in confessionale, che ho affinato l’ascolto. Quello che fa fare sempre un passo indietro per allargare lo spazio dentro al quale accogliere la persona che ci affida la sua anima. Può essere credente o anche non esserlo, non cambia. Accogliere, anche nel sacramento della Riconciliazione, per me significa toccare con mano il dolore, il disagio, l’inquietudine degli uomini e delle donne che vengono qui e non vogliono essere giudicati, ma solo compresi, sostenuti, “abbracciati” con tenerezza».

Ri-conciliazione, comprensione, compassione: tutte parole che contengono la preposizione «cum». Essa sta a indicare che un’azione, un pensiero, un moto dell’anima si esplica, ha senso, solo cum, cioè insieme. Nel caso di comprendere e compatire significa che, oltre a condividerli, ci si fa carico di quei pesi per non farli portare a nessuno in solitudine.

«Di prassi dedico alla confessione circa 3-4 ore al giorno – aggiunge fra Maurizio –, ma ci sono giornate, ad esempio in coincidenza con particolari celebrazioni o ricorrenze liturgiche, in cui c’è molto afflusso in Basilica e, allora, rimango anche 6-7 ore. La pandemia non ha fatto diminuire le presenze, anzi.

C’è chi entra in confessionale solo perché ha iniziato a porsi delle domande sul senso del suo stare al mondo. E chi, invece, ha una fede che pensava radicata e che alcuni fatti della vita hanno messo a dura prova, rendendo entrambi fragili. Il compito di chi sta, come me, dall’altra parte, è ascoltare, comprendere, perdonare.

Il perdono apre da solo un percorso, aiuta a cercare un’altra strada, a trovare una luce. In verità, non sempre è possibile, ma quando accade si cerca ancor più di sostenere e farsi carico delle persone che si affidano, attraverso il nostro Santo, a Dio. Perché questo luogo, non unicamente fisico, è davvero “casa di Dio”».

Uno dei confessionali più conosciuti in Basilica è quello che fu di padre Placido Cortese e che si trova proprio di fronte all’entrata della cappella delle Reliquie. Da alcuni anni è un vero e proprio memoriale, che ricorda il luogo centrale dell’azione di un confessore e di un frate che concedeva il perdono ai penitenti ma raccoglieva al contempo gli appelli dei collaboratori che gli segnalavano i nomi di donne e di uomini che rischiavano la cattura. Grazie a questa rete, padre Placido riuscì con coraggio a salvare tante vite.

La bellezza di ogni storia

Di vite salvate e di storie umane, in sessant’anni e più dentro al confessionale, fra Maurizio ne ha incontrate davvero tante. «Donne e uomini, giovani e centenari, persone sole, abbandonate, vittime di violenza o di dipendenze: è un’umanità grande, varia, ognuna importante e cara a Dio.

La bellezza di questo sacramento sta nel non fermarsi alle apparenze, alla superficie. Molti si nascondono, ad esempio, dietro un abito esteriore o anche interiore, non lasciando entrare nessuno dentro a dolori cupi e infiniti. Potrei raccontare tante di queste vite, ma ne basterà una per tutte. Un giorno arriva in confessionale un vecchio. Almeno così sembrava. Si trascinava a fatica, vestiva abiti sporchi, un “barbone”. Dall’altra parte della grata inizia a parlarmi, affidandomi ferite mai rimarginate.

Non mi fermai all’apparenza, mi concentrai sulle sue parole. Alla fine, lo riconobbi, e non dal giubbotto consunto, ma proprio dalle sue parole. Era un professore e per decenni aveva insegnato all’Università. Glielo dissi. Mi ringraziò con gioia e quasi con pudore: “Nessuno ormai sa più chi sono. Incrocio tante persone per strada ma nessuno mi riconosce più. Solo lei, padre, mi ha riconosciuto. Ha visto ciò che sono nelle parole e nell’anima. Grazie per questo dono”.

Dentro a ogni vita, allora, anche quella più sgangherata, difficile, storta o che ci pare irrecuperabile, sopravvive sempre una umanità che va tirata fuori, portata in superficie, fatta affiorare. Per prendersene cura, abbracciarla forte e affidarla a Dio, che la amerà così com’è. Perché, dalla sua casa, Dio non lascia fuori nessuno».

 

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Data di aggiornamento: 15 Marzo 2022
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