C’era una volta un cavallo azzurro…
Era il 13 maggio 1978, qualcuno di voi lo ricorderà, quando in Italia entrò in vigore la Legge Basaglia, la famosa Legge 180, promossa dal brillante psichiatra Franco Basaglia. Quella legge, che permise la chiusura delle strutture manicomiali, rappresentò davvero l’inizio di una nuova era, per chi si occupava di salute mentale ma soprattutto per la cultura, la politica e il modo di percepire, più in generale, il concetto di «disagio psichico». A cambiare, all’inizio, fu innanzitutto la dimensione dello spazio. I pazienti degli istituti, fino ad allora rinchiusi nelle strutture e con pochissimi contatti con l’esterno, potevano ora finalmente uscire, farsi vedere, mettersi in relazione con gli altri, instaurando per la prima volta una comunicazione e un legame concreto tra il dentro e il fuori. L’inclusione, insomma, stava facendo in questo modo la Storia.
Tra i protagonisti di questa felice ondata ci fu, e forse questo non è a tutti noto, un cavallo azzurro, chiamato Marco Cavallo. Ma chi era Marco Cavallo? No, non un cavallo in carne e ossa, bensì una scultura di cartapesta alta oltre quattro metri, una macchina teatrale nata dalla fantasia dei pazienti del manicomio San Giovanni di Trieste, simbolo di una rincorsa, di una via di fuga dalla propria condizione restrittiva. Marco Cavallo fu ideato e costruito, proprio quando Franco Basaglia dirigeva quello stesso ospedale, da un gruppo di artisti, psicologi e operatori. Tra questi, a fare da traino con la sua energia contagiosa, ci fu senza dubbio Giuliano Scabia, drammaturgo e scrittore padovano, che ebbe l’intuizione di dare a Marco una voce e un nome, di metterlo in dialogo, con le sue parole, liriche e canzoni, con il resto della cittadinanza. Centrale, nella storia del cavallo azzurro, fu senza dubbio la sua «entrata in scena». Rimasto bloccato tra le porte del manicomio perché troppo alto (con grande agitazione dei pazienti che in quella situazione si riconoscevano), Marco venne fatto uscire sfondando letteralmente una parete vetrata dell’Istituto. Da lì, un corteo e una festa gioiosa raggiunsero la piazza, facendo della scultura il simbolo di una rottura definitiva con il passato.
Che storia meravigliosa, direte voi. Già. Peccato che Marco, che ancora se ne va in tournée per l’Italia a parlare di salute mentale, sia ora in pericolo. La sua presenza in un magazzino di Muggia, vicino a Trieste, è stata infatti giudicata dal sindaco leghista Paolo Polidori un «ingombro». Che brutta parola, dico io, «ingombro»: sta a indicare qualcosa che crea impaccio, impedimento, ostacoli. Un peso che si vuole spostare. Ecco, sta qui il problema. Pensare di poter spostare trent’anni di storia dei diritti, per fare «ordine», senza riconoscerne valori e ricchezza. Come siamo arrivati fin qui? Una forte opposizione si sta fortunatamente facendo sentire e tanti sono coloro che vogliono lasciare a Marco la sua casa. Se, come me, volete sostenerlo, vi consiglio di seguire il profilo Facebook dello psichiatra Peppe dell’Acqua, il quale, con forza, ne sta raccogliendo l’eredità. Che altro potremmo dire? Forse solo quello che cantava Roberto Vecchioni: «Corri cavallo, corri ti prego...».
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