Tradizioni contadine
Dai tempi più remoti, il maiale è sempre stato una presenza importante per le civiltà contadine. Un tempo la lavorazione delle carni era effettuata quasi prevalentemente a livello artigianale. Oggi, con l’avvento delle grandi catene di supermercati e con una richiesta commerciale sempre più esigente, il settore si è dovuto adeguare industrializzando il processo lavorativo. Moderni edifici adibiti a mattatoi automatizzati hanno soppiantato la macelleria artigianale. I poveri animali, allevati esclusivamente per la produzione alimentare, sono sottoposti a un processo di crescita programmato. Devono «ingrassare» nel più breve tempo possibile. Solo quando verranno fatti salire sui rimorchi degli autoarticolati, e successivamente scaricati per essere ordinati in fila indiana verso il loro destino, daranno profitto. Un cruento e «immorale» ciclo produttivo atto a trasformare la vita in cibo a lunga conservazione.
Fino a qualche decennio fa bastava girovagare nelle campagne per imbattersi in realtà agricole a conduzione familiare, dove era possibile acquistare prelibati salumi fatti in casa. Fattorie nascoste nella natura incontaminata, dove gli animali venivano allevati con l’etica e l’amore del contadino. Non esistevano moderne tecnologie regolate da uomini in camice bianco, con mascherine e guanti di protezione. Il lavoro andava avanti seguendo le antiche tradizioni tramandate dal sapere degli anziani. Nella civiltà rurale, la macellazione del maiale assumeva il valore di un rito, al pari della raccolta del frumento o della vendemmia. Un avvenimento solenne dal valore quasi religioso, tra gente semplice riunita in un «gesto». Una «legge» che rientrava nell’economia della famiglia contadina e nella disciplina morale, basata sulla frugalità e sulla dedizione al dovere.
È ancora buio nella desolata e gelata pianura solcata dal Ticino, quando tra i mezzadri e i fittavoli del luogo fervono i preparativi per il «cerimoniale» tanto atteso. Il cancelletto in lamiera della piccola porcilaia è ancora chiuso: spetta, per tradizione, al più giovane degli «invitati» aprirlo. La bestia, forse convinta di ricevere la razione quotidiana di semola, non oppone resistenza mentre viene accompagnata nel luogo dove verrà abbattuta. I brontolii si spengono quasi subito, mentre gli uomini si mettono in cerchio attorno al maiale steso al suolo dell’aia. Rimangono in rigoroso silenzio, per qualche attimo: implorano perdono per il gesto compiuto. Poi riprendono l’attività con ritmo frenetico: le zampe posteriori dell’animale vengono legate con corde di canapa alla benna del trattore. La pala meccanica viene issata con lentezza, mentre il macellaio colloca un mastello in metallo – dove verrà raccolto il sangue colato – sotto la testa del povero maiale. Niente deve essere perso.
Gli uomini scommettono sulla qualità e sulla quantità di carne che trarranno dall’animale. Gli animi si accendono e sfavillano mentre le braccia sollevano e posano il maiale sul tavolo di lavoro. Due uomini versano acqua calda sul corpo dell’animale, mentre un terzo, avvalendosi di una lama affilatissima, raschia il pelo. La pelle del maiale diventa rosea e fumante, levigata e pulita. Denudata del suo «vestito», la bestia viene riappesa a un robusto treppiede per essere svuotata delle interiora. Squarciata con un taglio netto, lungo tutto l’addome. Si fanno fuoriuscire le budella che, ancora tiepide, vengono lavate e controllate: serviranno per insaccare i salumi.
La selezione delle carni è affidata al «mazén» o al norcino, il vagabondo istitutore macellaio reclutato nelle fattorie in occasione della tradizionale macellazione annuale del maiale. La cura e l’attenzione nel taglio delle parti dell’animale è fondamentale, sia per il sapore che per la consistenza della carne. Le sapienti mani del maestro si muovono nell’aria maneggiando coltelli da disosso e mannarette. Un anziano contadino raccoglie la testa della bestia e, dopo averla lavata accuratamente, la fraziona ripulendola del cervello che, fritto, diventerà una prelibatezza.
Le donne accendono il fuoco in un contenitore di metallo ricavato da un fusto di carburanti: preparano la brace per cucinare la lonza, che verrà servita per il pranzo. La nonna della cascina, furtivamente si appropria di alcuni pezzi di carne da conservare per l’indomani. Scoperta dai nipoti, non esita a ricordare, a sé e agli altri, che non sono poi così lontani i tempi in cui il «giorno dei salami» era una delle poche occasioni in cui si poteva mangiare carne e fare festa.
L’attività procede tra le chiacchiere: chi trita la carne regola le piastre forate e i dischi di taglio per ottenere il giusto amalgama, chi miscela l’impasto aggiunge marsala, spezie e altri ingredienti misteriosi per dare il giusto gusto ai salami. C’è una sana gelosia in questa fase della lavorazione, ognuno ha una ricetta esclusiva da nascondere. Le mani del «rigiò» insaccano e legano pancette e filzette finché prendono la giusta forma, per poi essere appesi al soffitto in un apposito locale. Non basta «attaccarli» alla volta a vela della stanza, gli insaccati. Le «opere» vanno girate e rigirate, perché abbiano la posizione adatta e possano raggiungere la giusta stagionatura nel giro di qualche settimana.
L’esposizione finale dei salumi è sempre un momento di grande soddisfazione: gli uomini e le donne, ma anche i più piccoli della famiglia, guardano verso l’alto contando sottovoce le corde penzolanti. Il giorno dell’evento tanto atteso volge al termine: il sole sta scomparendo oltre i prati ancora ricoperti di brina, segnando la fine di un lavoro iniziato all’alba. Tradizioni germogliate nelle campagne e cresciute davanti al focolare, o recitando il rosario nel tepore di una stalla. Tempi andati, quando le soddisfazioni erano date dai canti che accompagnavano il raccolto, dalle feste del santo patrono, dai semplici banchetti a base di polenta a cui si univa il lardo, da far sciogliere lentamente in bocca per gustarne il sapore più a lungo. Quando l’invidia non era invidia, ma confronto, per il salame più appetitoso, o magari per il maiale più grasso.
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