12 Febbraio 2023

Il free climber degli alberi

Andrea Maroè è salito in cima a 15 mila alberi in tutto il mondo per misurarne l’altezza. Da lassù se ne coglie la forza e la potenza. Anche se gli esseri umani continuano a maltrattarli nonostante i benefici che ne ricevono.
Il free climber degli alberi

Andrea Maroè è tra i pochi uomini al mondo che possono vantarsi di essere saliti sulla vetta degli alberi più alti e più grandi del pianeta. In Italia ha spianato la strada alla professione dei tree climbers moderni, letteralmente gli «scalatori di alberi». Con una curiosa confessione personale: essere vicino alla fotosintesi clorofilliana, come fanno i grandi alberi, e un distinguo che ci svelerà nel corso della nostra chiacchierata, all’ombra di un vecchio ciliegio in prossimità della «tana», come lui chiama la sua casa di Tarcento, in provincia di Udine. «È vecchio due volte me» mi spiega Andrea, 56 anni, col fisico massiccio da friulano arrampicatore di vette arboree. Tra gli specialisti a livello internazionale, il suo nome è una vetta a sua volta, per lo spirito pionieristico e la lungimiranza forestale che lui vanta. 

Msa. Come ci si sente a stare in vetta? 

Maroè. Benone! Anzi, caratterialmente resterei sempre in cima a un albero. C’è molto da imparare dagli alberi. 

Quand’è iniziata questa sua passione? 

I primi passi tra il verde li ho mossi grazie a papà Ervino e a mamma Carla che gestivano un vivaio, dove sono cresciuto tra le piante. Poi il liceo scientifico, l’università come agronomo, specializzato in selvicoltura, e successivamente la collaborazione con molte università nel mondo. Trent’anni fa non c’era la specializzazione in tree climbing come oggi. I primi passi sono stati tutti dettati dall’esperienza e da quel mio personale modo di sentire e vivere gli alberi. Potrei dire di non aver scelto io questo mestiere, ma che gli alberi l’abbiano scelto per me. E faccio pure la fotosintesi. Mi spiego, durante una cena con un “santone” indiano, molti anni fa, lui mi disse che «arrampicavo», e senza sapere nulla di me. Gli risposi: «Sì, ma in cima agli alberi». E lui: «Ah, ecco, tu fotosintetizzi!». Fu con grande stupore che ascoltai quelle parole, e anche se non compio la fotosintesi in senso stretto, effettivamente assorbo l’energia che gli alberi mi trasmettono. 

Cos’è per lei un albero? 

Inizialmente avevo un approccio scientifico e lavorativo. Oggi che ho sulle spalle e nelle gambe la salita su circa 15 mila alberi e con un centinaio di giant trees misurati scientificamente in tutto il mondo, provo solo rispetto e amore verso queste meravigliose creature che mi hanno indotto alla consapevolezza che noi esseri umani siamo i veri alieni su questo pianeta, visto che gli alberi sono presenti da 400 milioni di anni, e noi da appena 300 mila. 

La sua è una dichiarazione d’amore! 

Vorrei che fosse questo! Da parte mia, la cima di un albero è il luogo dove mi sento più a casa. Il luogo dove meditare sul mondo, anche quando lavoro. Da lassù, ho mutato le mie percezioni e idee sulla società. Sì, gli alberi mi hanno insegnato e mi stanno insegnando a vivere. Loro non fanno la guerra, contrariamente a noi che abbiamo la presunzione di definirci esseri sociali. Pensiamo poi alla gratuità nel donarci ciò che essi producono. «Gratuità» che noi umani abbiamo quasi perso del tutto. 

Le sue sono parole da filosofo. 

Oppure, più semplicemente, sono le parole di uno che ha l’onore di salire sui più grandi esseri viventi del pianeta, e per questo ne prova un grande rispetto. 

Qual è stata la sua prima ascesa professionale? 

Avvenne 35 anni fa. Era una vecchia signora verde: una sequoia gigante in un giardino privato. Un’autentica colonna vegetale, «cavalcata» da un minuscolo ragazzo. Un’emozione che ancora oggi ritrovo ogni volta che arrivo in cima. Come avvenne quando mi arrampicai scalzo e senza corde come atto di rispetto, su un gigante di 4 mila anni in una delle mie prime spedizioni. Era un Pinus Aristata dell’Arizona, negli Stati Uniti, che si mostrava come un vecchio matusalemme, apparentemente rinsecchito, ma in realtà ancora vivo e vegeto. Più recentemente, invece, sono salito sull’albero più alto del Venezuela, provando le stesse emozioni di quando ero ragazzo.

Che utilità c’è a misurare gli alberi? 

Quando ho iniziato era quasi una sfida. Una gara tra pochi professionisti. Poi si è trasformata in una branca dell’arboricoltura e selvicoltura che serve anche agli studi aerospaziali. In questo momento, conoscere l’altezza degli alberi dominanti della foresta tropicale permette, ad esempio, alle agenzie spaziali di tarare i loro sistemi di rilievo satellitare. Se si ha l’altezza precisa dell’albero più alto, si può valutare con precisione quanto legname può produrre un bosco, e quanta anidride carbonica può immagazzinare una foresta, tali da influenzare le politiche economiche ed ecologiche di una regione, di uno Stato o dell’intero pianeta. Questo dimostra come un dato così apparentemente banale ci consenta, invece, di fare rilievi su scala globale. Se all’inizio mi prendevano in giro, oggi per misurare gli alberi mi cercano le università. 

Una professione per pochi quella del tree climber? 

In termini fisici è faticosa. Quando iniziai, nel 1980, eravamo pochi in tutta Italia e qualche centinaio nel mondo. Oggi, invece, ci sono scuole, con migliaia di professionisti, che insegnano ai giovani come curare e salvare gli alberi, specificando che non si tratta della stessa cosa. Tuttavia, come misuratori scientifici, siamo ancora pochi nel mondo. Ci sono gli americani con gli scalatori di sequoie dell’Università della California, un gruppo di inglesi che fanno capo all’Università di Birmingham, e un altro collegato ad alcuni atenei francesi. Ma come enti privati siamo gli unici che, con la «Giant Tree Foundation» nata nel 2018 grazie a un gruppo di specialisti, forti di trent’anni di spedizioni ed esperienze, misuriamo i grandi alberi con lo scopo di conoscerli, studiarli e difenderli. 

Perché resta fondamentale per il nostro futuro salvare ogni singolo albero secolare?

Diciamo che sono ancora moltissime le specie arboree sconosciute, tanto che recentemente ho scoperto un albero della foresta amazzonica dell’Ecuador su cui mi sono arrampicato, non ancora classificato, e con una chioma di 7 mila metri quadrati che, con un pizzico di narcisismo, mi sono divertito a battezzare Ficur maroensis, mentre sono in corso le analisi del suo Dna per classificarlo in maniera scientifica. Parlo di creature imponenti e antiche, con cui dovremmo allearci invece di distruggerle, visto che siamo i loro più acerrimi nemici, mentre gli alberi restano le «macchine» più perfette per la produzione di ossigeno, per la regolazione dell’anidride carbonica, del vapore acqueo, ma soprattutto vanno considerati i servizi fondamentali all’ecosistema per la stessa vita dell’uomo. Sono certo che saranno proprio le foreste mature le nostre ancore di salvezza per il futuro del pianeta. Una foresta matura non è solo un insieme di alberi vetusti, ma un mega organismo che si è costruito in migliaia di anni, e vive per migliaia di anni, ed è così complesso che non dobbiamo illuderci di compensarne la scomparsa con l’impianto di milioni di giovani alberi come stiamo facendo. Questo mi è parso chiaro nell’ultima spedizione in Brasile, dove ho insegnato nella fazenda di mille ettari ereditata da Sebastião Ribeiro Salgado. Qui il celebre fotografo ha istituito un vivaio forestale capace di produrre milioni di giovani alberi l’anno. Da 25 anni sta ricostituendo la foresta atlantica, dove prima sorgeva una landa desolata. Purtroppo, osservandola da vicino, ti accorgi che è composta da un’unica specie dominante e infestante. Questa non è riforestazione. La vera foresta è la biodiversità con il suo tempo biologico. Noi, con la nostra tecnologia, potremmo anche ricostruire la cattedrale di Notre Dame, ma per fare una foresta antica occorreranno sempre mille anni, con i grandi alberi che, dalla loro parte, hanno il tempo che noi non abbiamo più per poterci salvare.

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Data di aggiornamento: 12 Febbraio 2023
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