Chi va e chi resta
In questo mese ricordiamo i nostri morti, mentre siamo assediati da immagini di morte così violente da togliere il respiro. Abbiamo pensato, anche i lettori di questa rivista che appartiene a quelle che fieramente non si rassegnano e in modo appassionato e ostinato raccontano la fede nella vita, abbiamo pensato che fosse questione di tempo, che un poco alla volta noi uomini e donne ci saremmo felicemente trasmessi l’un l’altra la passione per i diritti e la pace. Invece no, non c’è nulla di nuovo sotto il sole ha detto Qoèlet, anche se citandolo dovremmo ricordarci che non era ancora nato il Messia e una luce nuova dovrebbe abitarci.
Quando qualcuno che amiamo viene sottratto alla nostra vita presente è comune e lancinante l’esperienza di acuta confusione dei sensi che ci fa vedere la persona dappertutto intorno a noi. Si ferma il cuore mentre guardiamo di spalle una donna tra la folla che raddrizza la testa scuotendo i capelli proprio come faceva lei, o un uomo che da lontano ci viene incontro e ha la stessa alta fronte stempiata esattamente come ce l’aveva lui. Abbiamo dentro l’immagine così «viva» di chi non è più accanto a noi, che lo raffiguriamo con il desiderio. Lo stesso desiderio che ci guida quando dettiamo le parole da scolpire sulle lapidi che ricordano i nostri morti.
Una lunga affettuosa passeggiata dentro il cimitero monumentale di Padova ci permette di attraversare questa corrente di sentimenti. A volte prevale fieramente il dolore di chi rimane: «Ci manchi tanto», semplice e straziante. Spesso troviamo la fede che la persona amata possa continuare a essere una presenza attiva nella nostra vita: «Dal cielo veglia su di noi»; «Sii la nostra luce». Sulle lapidi più datate è sempre presente la croce, in quelle più recenti diventano comuni le figure. La civiltà dell’immagine segna anche il gusto della memoria. Sono scolpite o impresse sulla pietra: il volto di Cristo, sempre sofferente, la figura di Maria, dolce e in preghiera. Ma anche tanti fiori, a volte colorati, calle, boccioli di pesco di colore rosa e bianco. Nella pietra di un musicista, una frase dalla Tosca, con pentagramma e note. Bellissimo, chi conosce la musica si trova a cantare silenziosamente il testo: E lucean le stelle... e si commuove. Le statue delle cappelle sono quasi sempre angeli, delicati messaggeri tra cielo e terra. C’è anche una piccola statua di sant’Antonio di Padova con Gesù in braccio. Veglia una coppia di coniugi, forse devoti al Santo.
Il piccolo curatissimo cimitero inglese, così leggiamo sulla mappa all’ingresso, riporta ordinate candide lapidi di caduti troppo giovani: 18, 23, 30 anni il più «grande». Qui le scritte scolpite sulla pietra sono i motti dei loro reggimenti: Per ardua ad astra («Verso stelle attraverso le difficoltà»), Ubique quo fas et gloria ducunt («In qualunque luogo conducano giustizia e gloria»). E ci si chiede se questi poco più che adolescenti sapessero e condividessero. Sulla pietra di un ragazzo di 24 anni troviamo Peace, perfect peace with loved ones far away. «Pace, pace perfetta insieme ai nostri cari che sono lontani», un inno di fede nel Signore scritto dal vescovo Bickersteth in occasione della morte di una persona amata. Sono tutte parole benedette quelle che riserviamo ai nostri morti e la più ricorrente è proprio pace. Davvero in questo tempo in cui sembra diventata assurdamente normale l’idea della guerra, viene da salutare tutte queste vite vissute pregandole di aiutarci a costruire qui sulla terra, e ora, la pace.
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