Cinque donne appese a un filo
Tre sono le cose che le valli montane sembrano ancora custodire: le tradizioni, il silenzio e il suono delle campane. Il piccolo, e bellissimo, paese di appena 250 anime di Selva di Progno, nella verdeggiante Val d’Illasi sui Monti Lessini veronesi, vanta un record particolare: custodire una piccola e ardita squadra di «campanari», tutta al femminile, le cui componenti sono pure imparentate tra loro. Così, nel paese italiano in cui l’«arte campanaria» è forse più diffusa e ben radicata in ogni famiglia (sono trentasette, infatti, i campanari effettivi, un quinto dell’intera popolazione, se si include la frazione di Sant’Andrea), da qualche anno, ai trentadue uomini si sono affiancate cinque donne: Marianna, Serena, Chiara, Noemi e Sara, età diverse, ma una comune passione per le campane. Un paese di campanari, quindi, che può essere considerato un caso unico in Italia e che, grazie all’arrivo delle «campanare», non ha, a memoria d’uomo, precedenti.
Ma, allora: meglio campanari o campanare? «Assolutamente campanare» precisano senza esitare le cinque donne, che sanno di sfidare, innovandola, una tradizione. «Nessuna trasgressione – aggiungono loro –, ma solo un’integrazione a un’arte che per secoli è sempre stata al maschile, e che oggi ha bisogno di adeguarsi ai tempi». A veder suonare le cinque, tirando con naturalezza e grazia le corde delle campane conservate nel complesso parrocchiale di Santa Maria Assunta, si fa presto a dimenticare l’esperienza dell’altra metà del cielo, che pure è necessaria a completare il concerto di dieci campane che vengono suonate col sistema «alla veronese». Qui, a differenza di altri luoghi, infatti, la corda fa «l’asola», cioè viene suonata stando alla base del campanile, e il maestro chiama le campane con i numeri, mentre si fanno i «doppietti». Tutti gesti antichi. Identici da secoli, tramandati di padre in figlio. Di famiglia in famiglia. Per questo, nella minuscola comunità di Selva, non vi è famiglia che non vanti la presenza di uno o più «campanari», al punto che da oltre mezzo secolo c’è un’affermata squadra costituita e riconosciuta dalla Federazione Campanari A.S.C.S.V (Associazione Suonatori di campane a Sistema Veronese).
Un’arte che è passione
Uomini e donne si danno appuntamento settimanalmente presso il campanile, per provare gli immancabili suoni della domenica. «È un impegno fisso, che però non ci pesa, cui cerchiamo di non mancare» spiegano le campanare della «squadra rosa», composta da madre, figlia e dalle cugine. Il tutto in un mix famigliare che porta a ipotizzare quasi una sorta di «genetica campanaria» che si tramanda da generazioni. La questione è così intrecciata tra legami famigliari che è necessario chiedere ai protagonisti uno schizzo del loro albero genealogico, per non perdersi tra le parentele…
Nella minuscola frazione, anche gli spazi dentro il campanile sembrano obbedire al minimalismo dell’economia di montagna. Piccola è la chiesa così come piccolo è il suo campanile, che però custodisce in sé dieci vispe «sorelle» di bronzo sempre pronte a suonare: «Siamo una minuscola comunità, nella vita come nelle costruzioni, qui non esistono sprechi – ci dice Marianna, 47 anni, veterana del gruppo –, e tutto resta essenziale, campane comprese». E quando queste tacciono, il silenzio viene violato da pochi altri sparuti suoni naturali: lo scrocchio del capriolo o il bramito del cervo. «Siamo nati immersi in questa condizione naturale – prosegue Marianna –, e le campane per noi sono un suono altrettanto “naturale”, che scandisce da sempre le attività umane della valle».
Parole poetiche che la donna esprime con una naturalezza non priva, però, di quel pragmatismo tipico delle montanare, che non nascondono i sacrifici fatti per raggiungere i loro obiettivi: «Sono diventata campanara a 8 anni, vedendo ciò che facevano mio padre Vittorino e mio zio Pietro, quest’ultimo ancora nostro maestro campanaro. Da bambina non avevo molto altro da fare, perché qui i divertimenti sono ridotti all’osso. Così, per curiosità, m’intrufolai tra i campanari che, osservando la mia temerarietà, mi invitarono a cimentarmi nella loro arte e ben presto mi inclusero nel gruppo. A 10 anni ero così già parte attiva della squadra e partecipavo con orgoglio alle gare. Suonare le campane era (e rimane) il mio passatempo preferito e da allora non ho mai smesso. Anzi, la passione verso le campane è cresciuta e maturata». È lei, infatti, il motore della «squadra rosa» delle campanare di montagna, che da due anni sta scalando le classifiche provinciali e regionali: «Facile immaginare le facce dei campanari quando ci vedono nelle varie gare cui partecipiamo tutte insieme, quattro-cinque volte all’anno. Per ora non abbiamo mai strappato una vittoria, ma ci stiamo lavorando…» sottolinea Marianna.
Qualcuno già ipotizzava che quest’arte fosse destinata a scomparire e invece, dal 2022 per la Spagna e dal 2024 per l’Italia, l’Unesco l’ha iscritta nel Patrimonio immateriale dell’umanità. «E, d’altra parte, basta venire a Selva per capire che ci sono ancora molte giovani speranze di buona volontà» conferma Marianna (che nella vita fa l’impiegata comunale), che continua presentandoci il resto della squadra rosa: Noemi, sua figlia, e Serena, figlia del cugino Fabio, entrambe quindicenni, studentesse. Poi Chiara (sorella di Serena), 18, studentessa, e Sara, 30, venditrice di prodotti, anch’essa cugina, ma di secondo grado. L’unico intruso maschile del gruppo (ma è «scusato», in quanto padre di Serena e Chiara) è Fabio, 47 anni, campanaro «chiesto in prestito» alla squadra maschile, per completare il sestetto quando le donne partecipano a qualche gara.
«Non è escluso, però, che a breve avremo anche la sesta campanara per completare la squadra – aggiunge Marianna –, anche se devo ammettere che Fabio, quando è con noi, è impeccabile!». Anche la grinta sembra essere qui una questione di famiglia: «La passione è passione, certo, ma non dobbiamo dimenticare che quando suoniamo le campane svolgiamo anche un servizio per la nostra comunità» chiosa infatti Marianna. Nessuna rivalità con la componente maschile, ma semmai piena collaborazione quando suonano in forma mista. Quando invece si scindono in squadra femminile e maschile, allora marcano le differenze: «Noi donne siamo più tranquille e riflessive, e ciò torna utile quando, nelle competizioni campanarie, devi concentrarti». Per la giovane Noemi, «tirare la corda e sentire i rintocchi della campana sopra la testa, rilassa e infonde tranquillità». Per Serena, invece, «essere una giovane grintosa serve allo spirito del gruppo quando si è in gara». Suonando le campane, raccontano le cinque, «perpetuiamo una tradizione, ma soprattutto salvaguardiamo l’identità comunitaria di un piccolo paese di montagna».
Le idee sono chiare. Lo spirito è alto. E sulla passione non si discute, così come sull’amore per il loro paese: «Amiamo il posto in cui viviamo – rispondono le giovani campanare –, la tranquillità che respiriamo a Selva di Progno non la baratteremmo con nessun’altra cosa al mondo. Ci piacerebbe che la nostra energia si diffondesse con il suono delle nostre campane, in modo tale che questo nostro servizio si traducesse in una piccola forma di riscatto femminile», capace di scalfire una secolare tradizione. Che, anche grazie all’esempio e alla determinazione di questo gruppo di donne, si spera possa sopravvivere al passare del tempo, continuando ad accarezzare quegli animi che le campane, da sempre, sono chiamate a destare.
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