Miya Miya, va tutto bene
Molo Favaloro, un luogo simbolo, definito anche Porta d’Europa. Per le migliaia di migranti che ogni anno riescono a raggiungerlo dall’Africa, rappresenta la fine di un incubo e l’inizio (si spera) di una nuova vita. Fu lì che papa Francesco volle andare nel primo viaggio del suo pontificato: era l’8 luglio 2013. Meno di tre mesi dopo, il 3 ottobre, al largo di Lampedusa morirono 368 persone in un naufragio: per questo, dal 2016, il 3 ottobre è diventato la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza, per ricordare e commemorare tutte le vittime dell’immigrazione e promuovere iniziative di sensibilizzazione e solidarietà. Il Molo Favaloro, quindi, è molto di più di un semplice approdo: è vita, sogni, speranze. Ma anche morte. Ed è proprio in questo turbinio di emozioni che da tre anni, a rotazione, i medici specializzandi della Scuola di Specializzazione in Malattie infettive e tropicali dell’Università di Bari svolgono un periodo di lavoro sotto la diretta supervisione del personale USMAF - Ufficio di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera, sede di Lampedusa. «Il lavoro sanitario con i migranti è da considerarsi una sorta di corso intensivo – conferma la professoressa Annalisa Saracino, direttrice della Scuola – una modalità di apprendimento in immersione totale, un prezioso acceleratore di conoscenza nell’iter formativo».
Un’esperienza formativa sotto ogni punto di vista, medico e umano, che gli specializzandi hanno deciso di fissare su carta, in un libro dal titolo Miya Miya. Riflessioni da uno scoglio di confine (Edizioni La Meridiana). L’espressione «Miya Miya» in arabo sta a significare «Va tutto bene», che è esattamente quanto i giovani medici sperano di poter dire dinanzi a ogni nuovo sbarco. Il volume nasce come iniziativa di due specializzande, Valentina Totaro e Carmen Pellegrino: «Noi non vogliamo suscitare pietà o commiserazione per le persone che arrivano, e neanche vogliamo che sia un’autocelebrazione del nostro impegno – sottolineano le due giovani dottoresse –. Vorremmo solo poter condividere emozioni e pensieri che sono nati in noi lavorando sull’isola e che ci hanno cambiato come persone e come medici. Vorremmo provocare nel lettore domande e riflessioni al di fuori dei luoghi comuni».
Attese e domande di speranza
Uno dei momenti più intensi del periodo formativo è l’attesa degli sbarchi, sul molo. Ce lo confida Valentina Totaro, raggiunta al telefono: «Mentre aspettiamo lo sbarco, nessuno parla. Dentro di me ogni volta mi chiedo quali saranno le condizioni di salute dei migrant in arrivo, se staranno tutti bene». Perché, alla fine, solo questo conta. Ce lo conferma anche Carmen Pellegrino: «L’attesa dello sbarco è un momento quasi mistico. Solitamente c’è silenzio. Fino a qualche momento prima, magari, si parla con le altre persone presenti sul molo, per organizzarsi. Ma quando arriva in lontananza la motovedetta, cala il silenzio».
Chi presta servizio sanitario sul molo vive 24 ore su 24 con il telefono a portata a di mano: «Gli sbarchi sono imprevedibili, ti avvisano per telefono tra i venti e i trenta minuti prima, quando li avvistano in mare» dice Annalisa. Sempre pronti, sempre in allerta, sempre speranzosi. Si, perché «a volte, non vedi l’ora che quella telefonata arrivi – afferma Carmen –. Perché sai che c’è qualcuno in mare: se chiamano, sono salvi e non vedi l’ora di essere utile. Non vedi l’ora di andare su quel molo per tendere una mano, sia a chi arriva sia ai tuoi colleghi di ogni ruolo e associazione, cercando di fare il massimo e il più velocemente possibile, perché anticipare anche solo di un minuto l’arrivo di una coperta o di un sorso d’acqua è importante. È forse l’unica cosa che conta». Stare su quel molo e attendere gli arrivi è qualcosa difficile da descrivere, conferma anche Marinella: «Come spieghi a chi non è mai stato qui che cosa si prova ad aspettare l’ennesimo sbarco (o, come si dice sul molo, “evento”) con il corpo carico di adrenalina e la speranza che chi sta per arrivare stia bene?».
E, dopo tanto attendere, giungono finalmente i migranti. I volti spaventati, le voci che chiedono aiuto e le braccia che si tendono alla ricerca di una mano amica. «Un ragazzo bengalese appena sbarcato ci chiede: “Dove siamo? È lontana Roma?”», scrive Roberta nel libro, aggiungendo: «I bambini arrivano con gli occhi spalancati da sorpresa e sgomento». Giorgia rammenta invece che «improvvisamente il mondo intero e le sue infinite lingue si son racchiuse in quel pezzo di cemento lungo il mare. Eravamo tutti lì, in una bolla di speranza e paura». «Pensi a come aiutarli e a come agire al più presto per accoglierli al meglio. Non sai bene che cosa aspettarti: gli sbarchi sono tutti simili, ma al contempo ciascuno è un punto interrogativo», ci dice ancora Valentina. In quei momenti concitati l’obiettivo è uno solo: valutare le condizioni di salute dei migranti e soccorrere immediatamente i più gravi.
Ma il Molo Favaloro non è un classico ambulatorio e le persone da visitare non sono pazienti qualunque. «Da una parte c’è un po’ la frenesia di accoglierli, di capire di che cosa hanno bisogno e l’impazienza di fare qualcosa – ci racconta Carmen –, dall’altra parte c’è il timore di sbagliare in qualche modo e di non essere all’altezza delle loro necessità». Chi arriva è sollevato per il solo fatto di essere giunto fin qui, e i medici possono anche scherzare e sorridere con chi sbarca, pure senza capirsi. Sottolinea Annalisa nel libro: «È un grande privilegio quello che abbiamo, come dottori, di essere autorizzati a toccare le persone, puoi trasmettere tante cose solo trattenendo una mano o stringendo un braccio». Una visita medica diventa così uno scambio di sguardi, di parole, di sorrisi. «Sono uomini, donne e bambini, non hanno nulla in tasca se non la speranza di una vita migliore. A loro non puoi che regalare un sorriso nascosto dalla mascherina e sperare che questa terra possa ripagarli per tutti i torti subiti» scrive Giorgia. Poco importa se magari ci si capisce poco. Quando a parlare è il cuore, il linguaggio è universale. E «arriva». «Ti sforzi di sorridere con gli occhi – testimonia pure Rossana –, di dare il benvenuto sulla terraferma, anche se non si parla la stessa lingua e speri con loro che prima o poi la vita li ricompensi del torto subito: essere nati solo al meridiano e parallelo sbagliati».
«A queste persone posso solo donare uno sguardo di amicizia, un accenno di sorriso nascosto dalla mascherina, un minuto della mia giornata» aggiunge Laura, alla quale fa eco Giorgia: «Gli occhi possono abbracciare e curare, io ci ho sperato ogni volta che ho incontrato lo sguardo di ognuno di loro». «Al molo Favaloro ho avuto la possibilità di toccare con mano persone di ogni genere e provenienza – chiosa Angela –. Ognuna di loro aveva qualcosa in comune, oltre la stanchezza del viaggio, la sete e la fame; ciascuna di loro aveva gli occhi pieni di speranze e sogni. Ognuna mi ha fatto desiderare di essere la versione migliore di me stessa, per me e per loro, affinché, in questo lungo viaggio, potessero dire di essersi sentiti accolti almeno una volta (e spero non solo quella)».
Persone, non numeri
Ma capita anche, troppo spesso, che quei barconi che hanno solcato il mare trasportino morte. Ricorda Annalisa: «C’erano 100 persone stipate in una lancia libica, provenienti da Siria, Palestina e Bangladesh. Ma c’era un morto a bordo, steso al centro della barca, per terra, col volto coperto. Quando abbiamo capito, siamo rimasti tutti zitti sul molo, noi, i migranti, la guardia di finanza, i volontari». E non è vero che poi una persona, facendo questo lavoro, si abitua. No, non è proprio vero, dice Roberta: «Il mio cuore si stringe in una morsa di dolore, non ci si abitua mai al suono della morte».
Di fronte a tutto ciò restano le tante domande senza risposta, gli innumerevoli «perché» a cui nessuno ha ancora saputo rispondere e le poche certezze che questi specializzandi hanno portato con sé dopo l’esperienza a Lampedusa: «La migrazione non è fatta solo di numeri, ma di persone, di storie» ribadisce Roberta. Per questo, ma non solo, l’esperienza sul molo di Lampedusa è destinata a lasciare in loro tracce indelebili: «Quell’esperienza mi ha lasciato tantissimo – ci dice infatti Valentina –. Mi ha insegnato ad allargare gli orizzonti, a cambiare punto di vista e a pormi delle domande. I migranti non sono una questione da risolvere, ma esseri umani con una storia alle spalle».
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