Contemplativa sulle strade del mondo
Mentre l’ascolti, e non riesci a staccare gli occhi di dosso da quella figura esile, di una bellezza raffinata e luminosa, ti rendi conto che le sue parole ti portano a un altro livello. A un piano che non ti è familiare, ma che lei ti fa comunque sentire vicino e, soprattutto, possibile. Lo sguardo di Elide Siviero, 63 anni, padovana, è quello di una mistica, non c’è dubbio. Il suo animo è abituato a contemplare il cuore delle cose, a vedere al di là e più a fondo, più in alto. Le sue sono le parole di una innamorata, una donna che, nonostante sia stata, agli occhi dei più, tradita dalla vita, continua ad amare la sua esistenza, il mondo, le persone che hanno la fortuna di incrociarne il cammino. Il racconto della sua vita si schiude con delicatezza e fiducia dinanzi a me, rivelando un corpo malato da trent’anni, ferito da un dolore intenso che non le dà quasi tregua e da una diagnosi che fa tremare le vene ai polsi: sclerosi multipla.
«Avevo 35 anni quando me la diagnosticarono – racconta Elide –. All’epoca vivevo da quindici anni in una congregazione di vita contemplativa, nella quale non avevo ancora potuto fare la professione solenne, perché si trattava di una realtà di nuova formazione. Quando questa finalmente venne riconosciuta a livello canonico e io avrei dunque potuto consacrarmi definitivamente a Dio, mi ammalai. Dopo un lunghissimo ricovero e invasivi e dolorosi esami diagnostici, quando la mia malattia finalmente ebbe un nome, decisi dunque di uscire. Fu, in un certo senso, una scelta obbligata».
L’esistenza di Elide a quel punto pare fallita: il sogno della vita religiosa è sfumato, l’insicurezza del domani irrompe prepotentemente insieme al dolore fisico. «Ricordo che nei giorni di questo primo ricovero ospedaliero condividevo la mia stanza con una persona di circa 80 anni, colpita da un ictus: giaceva nel suo letto in fin di vita, rantolando. Eppure, in quel momento, accanto e in mezzo a tutto quel dolore, io ho avvertito chiaramente che davanti a Dio tutto quello che stava accadendo era prezioso. E che se anche la malattia stava rovesciando la mia vita, le mie speranze, i miei valori, c’è un unico grande valore che conta per davvero: essere in Cristo, qualunque sia la tua condizione. Non avevo più la salute, non potevo più essere una monaca, non avevo un lavoro, eppure mi sentivo come invasa dalla grazia. Non ho mai pensato nemmeno per un attimo che fosse stato Dio a mandarmi la malattia, ma avvertivo che quella malattia era un’occasione per fare un percorso diverso, che non si improvvisava».
Al momento della diagnosi, Elide ha alle spalle una lunga consuetudine con la preghiera e una profonda conoscenza delle Scritture. «Avevo anche letto tante cose sulla malattia e sul dolore – prosegue –, ma quando mi sono trovata io nella sofferenza ho capito che tutte quelle letture vanno fatte quando si sta bene, perché quando si sta male rimane solo, davvero, la Passione di Gesù Cristo. E così, pian piano, sono entrata in questa storia. La mia malattia è faticosa da gestire, perché posso solo peggiorare. Ho la forma primaria progressiva della sclerosi multipla, che al tempo della diagnosi era la meno studiata, e per la quale non c’era nessun tipo di terapia. Oggi posso dire di essere stata per certi versi fortunata, perché dopo trent’anni ancora posso camminare, benché appoggiata a un deambulatore, ma la parte più difficile da accettare è il dolore neuropatico, un dolore violento che mi travolge, che prende tutta la parte destra del corpo, che non mi fa dormire. Da anni passo le mie notti appisolata sul divano, perché non riesco a stendermi. Col tempo ho scoperto che la parola dolore viene da una radice latina che vuol dire “tagliare con l’accetta” ed è esattamente quello che io sento: un dolore che mi scalfisce e mi consuma».
Eppure anche questo dolore si rivela prezioso per Elide: «Ho capito che dovevo trovargli un senso… E l’ho trovato nella Lettera ai Romani di San Paolo: “E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm, 8,17). Lì, davanti a quel versetto, che pur avevo letto tante volte, in quel momento ho avvertito che quanto stavo vivendo non era inutile, che, se restavo unita a Cristo, quel dolore prendeva significato. Non so spiegarlo in un altro modo, non so verbalizzare che cosa mi è successo, ma è una cosa che ho sentito chiaramente e che da allora mi accompagna sempre. Sia chiaro: non voglio dire che per essere figli di Dio bisogna soffrire, ma che, quando soffri, devi sentire che sei unito a quella Croce. So che il mio può sembrare un discorso intriso di una facile devozione, ma io ho davvero bisogno di leggere la Passione di Cristo quando sto male, perché sento che Lui è l’unico che mi può capire: il dolore, la malattia ti pongono in un’isola deserta, sei inarrivabile, nessuno può comprenderti, e nemmeno tu puoi capire il dolore dell’altro».
«La sofferenza, allora, diventa un silenzio, una condizione che tu hai in comune con Gesù Cristo: per me, sapere che Lui sulla Croce mi capisce, è vitale, mi dà forza. E non perché io sono brava, ma perché non ci sono alternative. In questa esperienza di dolore così totalizzante, devastante – perché il dolore ti rovina la vita, rovina i momenti in cui sei con le persone, in cui devi parlare, devi leggere, vuoi dormire e non ci riesci... –, hai solo due possibilità: o vivi perennemente arrabbiata oppure cerchi di unirti a Cristo. E allora tutto assume una luce diversa, si apre una speranza: che nessuna goccia di questo dolore va persa, perché, come dice il Salmo 55, il Signore raccoglierà la tue lacrime. Questo pensiero non è consolatorio, ma è corroborante, mi dà forza, perché capisco che nulla di quanto vivo è sprecato. In fondo, se ci pensiamo, che cosa rende bella una vita se non il fatto di sapere che non è sprecata?».
L’esistenza di Elide Siviero è segnata pesantemente dalla malattia, ma anche da esperienze profondamente gioiose. «La vita – conclude – mi ha fatto tanti doni: ho un bel lavoro nella diocesi di Padova, presso l’Ufficio per il catecumenato e la liturgia e, soprattutto, un marito, Leone (nella foto accanto, con lei, ndr), che amo tantissimo, che mi ama e che mi ha scelto nonostante fossi sofferente e malata. Poi scrivo, compongo poesie, faccio esperienze belle e arricchenti, conosco tante persone. Ma nulla avrebbe senso se io perdessi questa intima unione che avverto con Cristo. Lui non ferisce e non manda le ferite, Lui è la luce che trasforma le ferite in feritoie».
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