Nato tre volte

Nonostante due lutti, una grave malattia e un incidente che lo ha costretto in sedia a rotelle, padre Tullio guarda il mondo dritto negli occhi. Niente vittimismo per questo missionario che, nel dossier di febbraio, spiega perchè la vita non va sprecata.
11 Febbraio 2025 | di

Padre Tullio è nato tre volte. Porta nel corpo, ma soprattutto nella mente, i segni delle notti più nere e delle albe che si sono succedute nella sua vita, senza nulla lasciare alla retorica o al vittimismo. Indossa un poncho cileno color cammello che si adagia sulla carrozzella, segno che è stato e sempre sarà un missionario. Ha 60 anni e viene da Coredo, in Trentino, terra che ha forgiato il suo carattere e la sua fede e ha acceso in lui il desiderio di lasciare la Val Di Non per il mondo: «Al mio paese c’erano alcuni missionari, rimanevo affascinato dai loro racconti». Padre Tullio Pastorelli non ha avuto la classica «chiamata» lineare, ha costruito il suo essere frate pietra su pietra. È un montanaro razionale e risoluto, amante dei caratteri forti come sant’Antonio e delle sfide difficili accanto ai più deboli. Non gli è venuto semplice buttarsi a volo libero. Il primo salto nel buio inizia dopo la morte di Stefano, un suo amico, a 23 anni: «È stato uno shock, che mi ha fatto capire che la vita va vissuta, non vivacchiata». Anche la scelta religiosa inizia in salita: proprio quando sta per diventare sacerdote, Tullio accompagna suo padre malato di cancro alla morte. «Il primo funerale che ho celebrato è stato il suo». 

La prova più grande arriva una ventina d’anni dopo, quando, missionario in Cile, gli diagnosticano un linfoma al sistema nervoso centrale: «La prima dose di chemio ha scatenato forti crisi epilettiche e mi sono perduto». Rimane in coma per 15 giorni e, quando ritorna, il medico gli dice che è stato vicino a «quella soglia». «Mi è caduto il mondo addosso – ricorda –. Centinaia di volte ero stato accanto a storie di dolore, avevo detto le cose che si dicono in queste circostanze, “preghiamo”, “le cose si sistemeranno”, ma adesso che toccava a me, tutto sembrava stonato. Eppure avevo un’altra possibilità. Non dovevo sprecarla». Cinque cicli di chemio e un trapianto di staminali sono quanto basta a Tullio per rinascere una seconda volta. Nelle vene il suo sangue trentino è tutt’uno con quello di un indios mapuche, che ha donato per lui. La missione riceve, la missione salva. I segni non sono casi. 

Gli chiedono di pensare a un nome per il nuovo Tullio appena nato e lui sceglie «Gaspar, il Re Magio che cerca Dio». Ma anche Gaspar a volte sente desolazione: i familiari e i frati sono lontani. Ha bisogno di una voce a cui aggrapparsi, lui che tante volte era stato quella voce: lo psicologo è importante ma non basta, cerca un padre spirituale, e lo trova in una monaca trappista, Mariela; per lui c’è una stanza sempre aperta nel porto di quiete e natura che è il monastero delle suore. «È lì che ho scoperto di aver sempre corso a 300 all’ora, fin quando mi sono schiantato contro la Croce. Solo nel dolore ho ritrovato il passo, la consapevolezza, la lentezza».

Seguono i mesi della rimonta: cibo salutare, passeggiate, giri in bicicletta. Ce l’ha fatta. E invece il 19 aprile 2023, rientrando da un allenamento in bici, un bus lo investe. «Lo ricordo come fosse ieri, una gamba sotto le ruote, l’altra penzolante dalla bici. Un uomo si avvicina, si toglie la cintura, la stringe intorno al mio corpo per fermarmi l’emorragia. Ha una voce positiva, cerca di consolarmi. Rimango sempre cosciente. Non ho mai saputo chi fosse». Si salva, Tullio, anche questa volta, l’ospedale è a 500 metri, ma il buio sembra senza fondo: «Un minuto prima ero un missionario, un minuto dopo ero un bambino bisognoso di tutto». Il medico annuncia brutte notizie: una gamba è persa, l’altra si spera di salvarla fino al ginocchio. «Ma che vuoi Dio da me? Non ti sono bastati Stefano, mio padre, la mia consacrazione a te, la missione, il mio schianto contro la Croce?».

Dio non fa telefonate, ti risponde poco a poco. Tullio ormai lo sa. Ora che è tornato a Padova, all’ombra della Basilica, dove nei primi anni 2000 si è occupato di pastorale giovanile, i ragazzi che ha formato allora sono oggi medici e infermieri e si occupano di lui con grande cura: «Ciò che semini non va perduto, lo posso testimoniare». Dalla sua sedia a rotelle vede il mondo dritto negli occhi e non ha intenzione di fargli alcuno sconto: «Non sopporto le ingiustizie, le barriere architettoniche, la solitudine delle persone fragili, la superficialità, il nascondersi dietro la burocrazia. Non ho più pazienza, se serve lo grido ai quattro venti». Il mondo è diventato lento: «Ci metto un’ora e mezza per prepararmi al mattino, un tempo mi bastava un quarto d’ora. Però oggi gestisco il tempo, nell’altra vita il tempo gestiva me». Lo sguardo è come un radar: «Ho colto negli ospedali immense solitudini. Ho visto padri sprofondare nei telefonini, per non affrontare gli occhi del proprio bimbo terminale. La malattia è un mondo rimosso, che colpisce malati e familiari. Non siamo preparati, non sappiamo affrontare, non sappiamo stare accanto. E invece sarebbe un sollievo per tutti sapere di far parte del flusso normale della vita, anche nei momenti più difficili». 

Tullio Gaspar sta ancora cercando risposte nelle pieghe della sua vicenda, ma di certo sa che ha ancora una vita davanti: «Non intendo sprecarla, non intendo sprecare il dolore. Vorrei stare accanto a chi cerca luce, aspettando insieme l’alba».

Questo articolo fa parte di un dossier dedicato alla malattia. Puoi leggere l'intero servizio nel numero di febbraio del «Messaggero di sant'Antonio» e nella versione digitale della rivista. Provala ora!

Data di aggiornamento: 13 Febbraio 2025

Articoli Consigliati

Febbraio in nero

04 Febbraio 2025 | di
Lascia un commento che verrà pubblicato