Cristiani si diventa
«Un po’ di domeniche fa a Messa il Vangelo parlava di “buon pastore” e di pecore che “lo seguono, perché conoscono la sua voce” (Gv 10,4). Sempre nel Vangelo di Giovanni, potevamo ascoltare che “un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”. Poi leggo che la percentuale dei fedeli che frequentano la chiesa è scesa al 27,5 per cento, raggiungendo il minimo storico degli ultimi trent’anni. Non occorre fare molti ragionamenti! Altro che “effetto Bergoglio”! Papa Francesco, così popolare e apprezzato (... dai non credenti!), sembra non sortire alcun effetto positivo sulla pratica religiosa degli italiani. Meno fedeli in chiesa, più turisti in piazza San Pietro?». Lettera firmata
Non è la prima volta che su queste pagine affrontiamo la tematica del calo dei cristiani o, comunque, della pratica cristiana. E già mi domando se per affrontare nel migliore dei modi questo tema non sarebbe utile partire proprio da qui: distinguendo tra «cristiani», formalmente coloro che essendo battezzati sono perciò «iscritti» nella Chiesa; e «vita cristiana», che certo ha essenzialmente a che fare con il battesimo e col far parte della Chiesa, ma non è per questo scontata. Voglio dire, la prima è faccenda numerica, la seconda di scelta quotidiana. Il primo è un punto di partenza, che può anche rimanere tale per tutta la vita, il secondo impegno di ogni giorno. «Non basta essere chiamati cristiani, ma bisogna esserlo davvero», scriveva già il santo martire Ignazio d’Antiochia, ucciso all’inizio del II secolo. A cui fa eco Tertulliano, padre della Chiesa vissuto a cavallo tra il II e il III secolo: «Cristiani non si nasce ma si diventa».
Mi chiedo, allora, se un po’ delle glorie passate e dei dolori presenti non siano dovuti anche alla confusione tra questi due termini. Per poter affermare che oggi siamo in pochi o in diminuzione, dovremmo essere davvero sicuri che una volta eravamo in tanti, al di là, evidentemente, delle anagrafi battesimali. Perdonatemi la banalizzazione e la semplificazione, che non rende ragione di tanti, tantissimi nostri genitori e nonni, sacerdoti e catechisti, che potremmo tranquillamente fare santi subito, ma per poter affermare con disinvoltura che oggi i giovani non credono più, bisognerebbe essere certi, e sinceri, che una volta si credeva così tanto. Perché allora ci piacerebbe sapere dove sono finiti tutti questi credenti che affollavano, a sentire i fortunati parroci di quei tempi, chiese e rosari, più o meno obbligati anche solo dalle consuetudini da tutti accettate. Quanto era convinta e matura la loro fede? Fino a che punto un’adesione formale si era tramutata in una scelta consapevole?
Oggi in chiesa non mancano solo i giovani, ma anche i loro padri e madri, tutti quelli che, a sentir loro, non si sono persi mai neppure un Vespro solenne. E lo diciamo, appunto, non tanto nel senso banale della presenza fisica e perciò numerica (di questa diminuzione, mi sembra, possiamo anche non preoccuparcene), ma di uno stile di vita che almeno desidera avere a proprio fondamento il Vangelo di Gesù Cristo. Detto così, mi pare che anche domandarci che conseguenze stia avendo l’«effetto Bergoglio» di cui ci parla l’amico lettore, potrebbe riservare sorprese gradite. Certamente papa Francesco sta invitando tutti noi a scegliere nuovamente Gesù, e a farlo in ogni istante della nostra vita. Con coraggio e senza vergognarcene. Possibilmente sia in chiesa che in piazza. Anzi, ovunque. «Il cristiano non è testimone di un’idea, di una filosofia, di una ditta, di una banca, di un potere: è testimone di obbedienza. Come Gesù» (papa Francesco, s. Messa a Santa Marta, 27 aprile 2017).